giovedì 28 ottobre 2010

Loda-Alfano o Lodo-Berlusconi?



Per riassumere l'oggetto dell'articolo riporto una vignetta che fa della sintesi la sua miglior qualità. Non serve aggiungere altro, SolidSnake

mercoledì 20 ottobre 2010

Lodo-Berlusconi

Ma perché diciamo tutti Lodo Alfano? Chiamiamolo per quello che è: Lodo Silvio Berlusconi, con nome, cognome e indirizzo. Un provvedimento necessario, inderogabile. Che serve a salvare il presidente del Consiglio da condanne certe, e non perché i giudici sono comunisti ma semplicemente perché l’andamento di quei processi, l’accumularsi delle prove, le condanne dei correi non lasciano ormai in proposito alcuna plausibile incertezza. È di lui che stiamo parlando, e ha ragione il presidente della Repubblica, con la sobria misura che gli è propria, a tirarsene fuori (questo solo significa la nota di ieri sera, col preciso richiamo alla precedente, del 7 luglio). Lasciatelo fuori, per favore, il capo dello Stato. Evitiamo di farne una foglia di fico. Qui stiamo parlando esattamente e solo di una legge salva-Berlusconi. Stiamo semplicemente dicendo che il cittadino Silvio Berlusconi, per quanti reati gli si contestino, non può essere processato. E non solo per ciò che ha commesso nell’esercizio delle funzioni, ma anche, anzi specialmente, per i suoi tanti reati comuni. E non per quelli caduti durante il mandato istituzionale ma anche per gli altri, tutti i pregressi, per omnia saecula saeculorum. È un nuovo diritto costituzionale, che cancella norme e prassi consolidate: un diritto (se così possiamo continuare a definirlo) fuori e contro la Costituzione. Il voto popolare, più o meno esteso (non stiamo qui a sottilizzare) cancellerebbe di per sé le responsabilità penali. Pazienza se con ciò vanno a carte quarantotto la divisione dei poteri e circa tre secoli di teoria democratica dello Stato. Quello che conta è che chi governa possa farlo in totale tranquillità, magari per poi passare armi e bagagli al Quirinale, dove lo scudo a due posti approvato oggi continuerà a proteggerlo dai giudici anche domani. La serenità nello svolgimento delle funzioni. Ma davvero possiamo pensare che il principio d’eguaglianza, così intimamente connaturato all’idea stessa di democrazia moderna, possa e anzi debba immolarsi sull’altare della serenità dei governanti? Ma cosa sarebbe dovuto succedere, allora, nell’America di Nixon e poi in quella di Clinton all’epoca dell'affare Levinsky? Il voto di ieri in commissione Affari costituzionali mette fine a molti equivoci. Fini e i suoi si rivelano per quello che sono: un’opposizione di sua maestà a sovranità limitata. Finché si scherza si scherza, ma quando è in gioco il Lodo Berlusconi si torna ognuno nella propria casella, a difesa del corpo mistico del re. Ci sono in giro, nel Parlamento e nel Paese, troppe anime belle preoccupate della continuità della legislatura e del cosiddetto rispetto della volontà popolare espressa a suo tempo nel voto. Ha fatto bene Pierluigi Bersani a dire chiaro e netto che il Pd non ci sta. E che sul punto farà, se occorrono, le barricate. Perché l’eguaglianza dei cittadini e il rispetto della Costituzione sono principi non commerciabili, che valgono assai di più di qualunque furbesco tatticismo parlamentare. Vedremo chi lo voterà, questo Lodo Berlusconi. E con che faccia si presenterà domani al giudizio degli italiani.

martedì 12 ottobre 2010

Gli assegni del Fratello

Ancora una volta mi vedo costretto a riportare un articolo dell'eccellente Concita(non che abbia bisogno di me :-) ) come baluardo di verità.


È stata una decisione difficile quella di dedicare oggi al copertina alla premiata ditta Feltri&Sallusti, i titolari del canile di segugi scatenati di volta in volta contro il nemico del padrone di casa, padrone che di cognomefa Berlusconi. Il mondo è grande e le notizie di giornata molte, scegliere di parlare in copertina del Giornale significa in effetti scendere a quel livello di giornalismo ombelicale, di rissa da cortile che già occupa abbastanza i cosiddetti salotti tv. Vorremmo risparmiarla ai nostri lettori. Facciamo eccezione oggi per rispetto della dignità della nostra redazione, ogni tanto un segnale di reazione bisogna pur darlo, c’è un limite anche all’evangelica altra guancia: davanti a una campagna che ci tiene da giorni sulle loro prime pagine, in un ping pong fra Libero e il Giornale, per una volta rispondiamo con la stessa moneta, opponiamo le nostre ragioni ai loro insulti e alle menzogne. Non lo faremo partendo dal linguaggio maschilista e veramente miserrimo che usano quando si rivolgono ad una persona di sesso femminile che non risponda alle categorie a loro note: non ci interessa sottolineare che chiamare "isterica", "oca o gallina" una donna pensando di depotenziare le sue parole, nel confronto di idee e posizioni fra persone, è uno un modo di essere e di pensare che si qualifica da solo. Le menzogne le conoscete. Sabato sera Sallusti e uno dei suoi inviati hanno sostenuto la loro autonomia dicendo che sono stati i primi a chiedere le dimissioni di Scajola: non è vero, sono stati gli ultimi. Il Post di Luca Sofri ha pubblicato un resoconto, rimandiamo a quello. Vorremmo parlare di autonomia e di soldi. Ieri Il Giornale scriveva che prendiamo lo stipendio da un “padrone”, il Pd. Ignorando il fatto che questo giornale ha un editore di nome Renato Soru (da Sallusti definito “uno sconosciuto”) l'argomento è che l’Unità percepisce una quota del finanziamento pubblico all’editoria, finanziamento erogato dal gruppo parlamentare dei Ds. Parliamone, dunque. A partire dalle cifre e da alcune informazioni di base. Il finanziamento pubblico, nel nostro paese, è erogato dal Parlamento, non dal governo, ed è un bastione democratico che serve a riequilibrare le eventuali pressioni di gruppi di potere che volessero strangolare un giornale scomodo facendo leva sulla raccolta pubblicitaria. Proprio quello che accade a noi. Il riequilibrio (tra l’altro parziale, erogato in una quota minima rispetto ai costi anche solo della carta) avviene in una situazione del mercato pubblicitario resa totalmente anomala dal fatto che l’editore più importante (più potente verso gli inserzionisti) è anche il capo del governo. Silvio Berlusconi più volte ha invitato gli imprenditori a non dare pubblicità ai «giornali disfattisti»: cioè a quelli che, come l'Unità, denunciano i suoi abusi. Gli inserzionisti pubblicitari in un paese normale fanno i loro investimenti a partire da dati oggettivi. Quello, per esempio, della readership: quanti lettori ha un quotidiano. Bene, un esempio che illumina: secondo gli ultimi dati dell'Audipress l’Unità ha 389.000 lettori, Libero - che pure, in quanto edito da una Fondazione, gode del finanziamento pubblico - ne ha 379.000. Ma, quanto alla raccolta pubblicitaria, Libero - evidentemente non un nemico per questo governo - raccoglie unacifra di dieci voltesuperioreallanostra. A Berlusconi dunque hanno ubbidito in molti. Imprenditori privati e pubblici. Ecco dunque a cosa serve il finanziamento dei gruppi parlamentari. Noisiamo,l'abbiamodettodalprimo giorno, un giornale del centrosinistra che ha il suo punto di riferimento nella piùgrandeforzadiopposizione:vogliamoessereunostrumento per la crescita e il rafforzamento del Partito democratico come baricentro di un'area che sappia farsi alternativa a un governo chestatrascinandoilPaeseversolacorruzione e la barbarie. Vogliamo farlo conspirito critico:dandovoce allabase e dando al vertice il modo di dibattere pubblicamente di parlare alla base. Sono questi i nostri unici padroni: l'esercizio della democrazia, la Costituzione. E la professionalità: sipuòavere lo stesso orizzonte di una vasta area politica ed essere giornalisti liberi. Il giornalismo non è obiettività, ma onestà.Èl'onestà di raccontarela verità dei fattiedel dichiarare il propriopunto di vista. Dichiararlo, non modellarlo in base alle esigenze del datore di lavoro, il presidente del Consiglio, che stacca, loraccontiamooggi,ogniannodegliassegni milionari per i debiti del suo giornale. Il finanziamento pubblico è un’altra cosa.Saremmofelici di poterne fare a meno. Se solo ci fosse una legge sul conflitto di interessi, se nell'editoria italiana si ripristinassero le leggi di mercato.

venerdì 8 ottobre 2010

Cani da riporto

Pubblico oggi un articolo di Concita De Gregorio

Vediamo se è ancora possibile ragionare in questo schifoso e pericoloso clima da fossa dei leoni, il pubblico eccitato dal sangue. La nostra specialità - ne abbiamo da tempo purtroppo l'esclusiva - è la fiducia nella giustizia. Nei magistrati, che per niente al mondo additeremmo al pubblico disprezzo: quando poi ricevono bazooka sulla scrivania ci chiederebbero senz'altro se ci sentiamonoi i mandanti. Abbiamo assoluta fiducia e certezza che la magistratura milanese chiarirà al più presto la dinamica dell'odioso attentato a Belpietro, che farà corrispondere un nome all'identikit e ci spiegherà anche il movente, in assenza - finora - di rivendicazioni. Abbiamo altrettanta fiducia nei magistrati che indagano sull'ipotesi di "violenza privata" ai danni di Emma Marcegaglia, e non ci sogneremmo di andare a vedere se portano i calzini celesti o si chiamano Ermenegildo per metterli in ridicolo. Abbiamo anche molto a cuore il nostro mestiere: un lavoro difficile che ci mette ogni giorno tutti quanti in pericolo. Non ci piace affatto che la redazione di un giornale venga perquisita, che si cerchino prove delle intenzioni. Vale per il Giornale come per tutti. I fatti. Il vicedirettore del Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, all’indomani delle critiche di Emma Marcegaglia al governo, manda un sms ad un collaboratore del presidente di Confindustria: «Domani super pezzo giudiziario sugli affari della family». Poi, al telefono: «Adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcecaglia come pochi al mondo! Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova », la città dove Macegaglia vive. La presidente di Confindustria dice (non in tv: agli inquirenti) di sentirsi minacciata e ricattata. Ora Porro dice che scherzava. Feltri che «Marcegaglia ha rotto i coglioni». I metodi del Giornale e di Libero - “il trattamento Boffo” - sono noti, non c'è bisogno di ricordare come siano stati trattati di volta in volta i «nemici» del Premier: la moglie, Boffo, Fini, Chiara Moroni, decine di altri. Se «Il Giornale » avesse dedicato anche solo un centesimodi queste attenzioni alle vicende giudiziarie del suo padrone sarebbe credibile. Ma il Giornale non fa inchieste su Berlusconi. Anzi, da qualche giorno - da quando Fini ha detto: o la smettete o faccio cadere il governo - è scomparsa dalla prima pagina anche la casa di Montecarlo. «Spostiamo i segugi a Mantova», ha detto Porro. I segugi, bella parola antica che evoca il giornalismo d'inchiesta, quello del "cane da guardia" che controlla i potenti. Se il canile è di famiglia, però, i cani in genere sono da compagnia. Al massimo da riporto, o da combattimento. Le famiglie possono essere luoghi orribili. Solo questo vorrei dire del delitto di Sarah, sul quale veramente non ci sono parole che bastino. Una storia di famiglia. Una famiglia italiana. Tutti sposati in chiesa, nessuna coppia di fatto, nessun legame omosessuale, nessun figlio in provetta, nessuno 'straniero' acquisito. Tutto "secondo natura". Una bella famiglia tradizionale di quelle su cui si fonda la nostra civiltà superiore. Lo zio, la cugina, il cognato. In genere a morire sono le donne, vorrei dire anche. Ogni giorno. E' una guerra anche questa. Anzi, un'ecatombe.

martedì 5 ottobre 2010

Il Nobel all'uomo che ha favorito la vita.

Una bella notizia, il Nobel a Bob Edwards. Lo scienziato inglese che dagli anni ’60 del secolo scorso si è impegnato nel mettere a punto la fecondazione in vitro con trasferimento di embrione: una tecnica che ha cambiato il modo di attuare la riproduzione umana e dato una svolta agli studi sull’embrione. Il Nobel non solo corona una vita dedita alla ricerca di un grande studioso di notevole spessore culturale, ma soprattutto è il sigillo dato dal mondo scientifico alla bontà della fecondazione assistita: la scienza riconosce che l’ampliamento del controllo umano della riproduzione è qualcosa di buono per l’umanità, di meritevole della massima onorificenza per uno scienziato. Di fronte a un simile riconoscimento a dir poco impallidiscono le critiche mosse da alcune religioni alla nuova tecnica, accusata essere contraria alla “vita” e alla “dignità della procreazione”.Nonsi capisce proprio in che senso si possa dire che sia contraria alla vita una tecnica che ha consentito la nascita di ormai oltre 4.000.000 di bambini. Si dovrebbe dire al contrario che è una tecnica che favorisce la vita e consente alle persone di avere figli anche quando la natura non li dispensa più. Ancora più difficile è capire perché dovrebbe essere contrario alla “dignità della procreazione” ricorrere all’assistenza tecnica per avere figli. Forse lo si può dire solo assumendola “naturalità”comecriterio normativo, supponendo che la natura sia buona e dimenticandocomeinvece in realtà sia spesso avara e matrigna. Fortuna che l’uomo grazie alla scienza e alla tecnica riesce a rendere il mondo meno duro e più agevole. Solo inveterati pregiudizi antiscientifici possono far pensare il contrario. Il Nobel a Edwards deve essere anche uno stimolo a ripensare l’etica e la politica sulla fecondazione assistita. In Italia, sfruttando abilmente lo sgomento generato da alcuni casi eclatanti di fecondazione assistita si è detto che c’era una preoccupante deregulation (il Far West), e si è approvata una legge liberticida che non solo penalizzaun numeroalto di cittadini nell’impegno di avere figli, ma ha fatto anche arretrare l’intera riflessione bioetica, favorendo ‘idea che la scienza comporti una sorta di “eccesso” da reprimere. Oggi questo clima conservatore informa il disegno di legge Calabrò sul fine della vita che ci riporta a prima degli anni ’50, e aleggia come uno spettro sulla campagna elettorale che molti danno per imminente. Il premio Nobel a Edwards ci ricorda che la scienza è vettore di progresso morale e che molte delle remore diffuse sono frutto di pregiudizi e tabù. Invece di chiedere perdono per gli errori tra qualche anno, come già hanno fatto su altri temi, è bene chi i critici della scienza si ravvedano da ora, evitando inutili sofferenze.

sabato 2 ottobre 2010

La "vittima" ed il "carnefice"

L’effetto è assicurato. Berlusconi è sottotono, spento, sfiduciato? Niente paura. Pigi il tasto ADP e tutto torna a posto. Lui si riaccende, l’adrenalina sale. Ad ogni stoccata di Antonio Di Pietro - “maestro della massoneria” grida - Berlusconi riprende colorito. “Testa della piovra”: petto in fuori, pancia in dentro, si riparte. “Nerone e pidduista”: più quello colpisce, più lui si rianima. Effetto viagra. A guardarli mercoledì dalle tribune, per un attimo si ha l’impressione che siano ancora loro i protagonisti: Berlusconi e Di Pietro, capaci da sempre di alimentarsi a vicenda, indispensabili l’uno all’altro. Stavolta però è, appunto, solo un’impressione. Perché il centro della scena si sta spostando altrove e questo è solo l’ultimo sequel di un film che va in onda da 16 anni. Il fustigatore e l’impenitente. “Imputato Berlusconi”: l’apostrofa ADP. E il premier quasi non ci crede: io vittima, lui carnefice. Come al solito. Se non fosse che stavolta la gag ha un sapore vagamente crepuscolare. Perché entrambi sono invecchiati e finiti politicamente all’angolo nel giro di pochi mesi. L’uno imperatore (momentaneamente) senza impero, appeso allo starnuto di un Calearo qualsiasi e ai voti di Bocchino & Co. L’altro ossessionato dalla difesa del proprio spazio politico dalle mire degli amici di ieri: dei grillini che tra un rock e l’altro si riorganizzano o di Vendola che ogni mattina si sveglia, si autoproclamaleader e invita tutti gli antiberlusconiani del mondo ad abbracciarsi nel nome della “speranza”. Tuttavia, mentre da Berlusconi il colpo di coda devi aspettartelo, perché l’uomo è quello che è e non molla mai la presa, da Di Pietro non sai proprio cosa attenderti. Più su del Quirinale non può sparare e del resto lo ha già fatto. Il Pd - che con l’intervento di Bersani in Aula gli ha dato una lezione di come si fa opposizione - lui lo usa come punchball, tanto che non conviene perdere tempo a ricordagli chi lo ha portato in Parlamento. L’ultimo bersaglio è Fini. Ma come? Il fortino FL è sotto assedio e il campione dell’antiberlusconismo non lo difende? Macché: Fini è complice, deve dimettersi. Caso vuole che sia proprio Di Pietro, nell’orazione più veemente dai tempi di Tangentopoli e dei cappi leghisti, a provocare il solo scambio di sguardi tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, costretto dal suo rango istituzionale a richiamare l’ex magistrato all’ordine. Segnali. Segnali che arrivano nell’unico momento, dal 1994in poi, in cui mettere fine al berlusconismo è diventato un obiettivo raggiungibile. A patto, però, di saper convogliare su di esso l’unità di tutte le forze interessate davvero al superamento delle infinite degenerazioni berlusconiane. Non ci resta che confidare nell’effetto ADP.Che stavolta sta per “A Dio Piacendo”. E Di Pietro non se ne abbia a male.