martedì 3 dicembre 2013

PD e brodini

Chi non ha visto il tele-confronto su Sky dei tre candidati alla segreteria del Pd e ne ha saputo qualcosa soltanto dai resoconti della stampa, del web e dei tg, cioè la stragrande maggioranza degli italiani, s’è fatto l’idea che sia andato male per gli ascolti ma bene per i contenuti. Perché Renzi, Cuperlo e Civati avrebbero parlato di “programmi”. È vero, ne hanno parlato. Ma con l’aria di chi deve recuperare qualche sparuto miliardo qua e là, insomma di chi deve guidare il primo partito (almeno stando ai sondaggi) di un paese malaticcio, ma in via di guarigione. E allora patrimoniale sì o no, taglio delle province, o dei fondi pubblici ai partiti, o dei parlamentari, o del Senato tutto intero (per trasformarlo, fra l’altro, in un poltronificio per consiglieri regionali). Poi, naturalmente, tutti a ridere di Grillo che chiama Ocsa (o Oxa, come Anna) l’Ocse e vorrebbe addirittura un referendum sull’euro o la rinegoziazione del debito pubblico. Come a dire: quello è matto, mentre noi sappiamo quel che diciamo. Purtroppo, a giudicare dai sorrisetti, dagli ammiccamenti e dalle battute, non lo sanno neanche loro, quel che dicono. Perché dal 2014 gl’impegni assunti dai governi Berlusconi, Monti e Letta con l’Europa (in parte dovuti, in parte no) imporranno di recuperare non qualche miliarduccio, ma decine di miliardi all’anno. Cifre che nessun taglio fra quelli proposti dai candidati piddini, né tantomeno le baggianate governative sulle caserme o le spiagge o gli immobili pubblici o le partecipazioni statali da svendere, basterà neppure lontanamente a raggiungere. Ci vuole ben altro. Cure da cavallo, non brodini e pannicelli caldi. E la scelta di chi pagherà il conto non è tecnica: è politica. Deve dettarla il Parlamento, non Saccomanni e i suoi tecnici. E nemmeno Lurch, al secolo Carlo Cottarelli, ultimo commissario straordinario alla spending review. L’altro giorno il Corriere anticipava il rapporto 2013 sulle attività della Guardia di finanza(online sul loro sito o su wikipedia): oltre 5 mila tra funzionari e impiegati pubblici denunciati per corruzione e truffa (dai falsi poveri ai finti consulenti), che nei primi 10 mesi dell’anno han provocato danni erariali da 2 miliardi e 22 milioni di euro, più truffe per 1 miliardo e 358 milioni. Cioè hanno rubato quasi 3,5 miliardi alla collettività: 350 milioni al mese. E questi sono soltanto quelli scoperti: immaginiamo a quanto ammonta il totale. Qualche mese fa, il ministero dell’Economia comunicò che i mancati incassi di evasione fiscale accertata dal 2000 al 2012, ma mai recuperata da Equitalia, ammonta a 545,5 miliardi di euro, su un totale di “ruoli” da riscuotere già emessi per 807,7 miliardi. Una parte dell’enorme buco (107,2 miliardi) è irrecuperabile perché riguarda soggetti in fallimento. Ma questo non basta per giustificare la bassissima capacità di riscossione di Equitalia, che non arriva al 5 per cento. In un paese serio (ipotetica del terzo tipo: un paese serio non avrebbe queste cifre di mancati introiti) si parlerebbe di questo, e solo di questo. E un governo e un Parlamento e dei partiti seri eviterebbero di perdere tempo appresso a corbellerie come la riforma costituzionale o l’ennesima legge contro la custodia cautelare e contro i giudici; ma concentrerebbero tutto il tempo e tutti gli sforzi disponibili a trovare il sistema per mettere le mani in questo immenso serbatoio di nero. Che non è numerologia astratta: sono somme accertate, con i nomi e i cognomi dei corrotti, dei truffatori e degli evasori. Basterebbe recuperarne il 5 o il 10 per cento in più, aumentando l’efficienza della macchina dello Stato, per avere a disposizione decine di miliardi per la mitica “ripresa”. Invece si continua a cincischiare dietro i falsi problemi e le false soluzioni. E a bollare chi chiede una seria lotta alla corruzione, all’evasione e al riciclaggio come giustizialista manettaro. Poi uno guarda chi sono i ministri e i politici che dovrebbero occuparsene, e capisce tutto.

giovedì 10 ottobre 2013

Indulto in Italia

Rubo, perché sono italiano, una vignetta di Natangelo.
Quando si dice "un'immagine vale più di mille parole".


martedì 8 ottobre 2013

Lo sport nazionale

In questo articolo, di imprinting differente dal prettamente politico, unisco tre miei hobbies: calcio, satellite e politica.
Voglio capire se il potere del caimano si stia affievolendo o rafforzando. E soprattutto come.
Difatti, per capire se il potere di Silvio Berlusconi sia davvero finito non bisogna guardare solo il Senato, ma la Lega Calcio, dove si sta consumando uno scontro che per le aziende del Cavaliere vale centinaia di milioni di euro. Da quando è scattata la riforma Melandri nel 2010, la Lega Calcio vende i diritti della Serie A in blocco. Sky e Mediaset comprano praticamente lo stesso pacchetto di partite (380 Sky, 324 per Mediaset che rinuncia ad alcuni match minori) ma la televisione di Rupert Murdoch paga per la stagione 2013/14 561 milioni di euro, la società controllata da Berlusconi soltanto 268. Motivo? Nel mondo dei diritti tv del calcio il digitale è ancora considerata una tecnologia sperimentale. In nessun altro Paese d’Europa succede che due tv concorrenti vendano lo stesso prodotto, con una concorrenza soltanto sul prezzo (29 euro al mese per Sky, 19 Mediaset) e non sul prodotto. La Lega Clacio non tratta i diritti da sola, ma si avvale di un advisor, una società di consulenza che dovrebbe garantire il massimo incasso ai club raccolti nella Lega. Si chiama Infront, un gruppo internazionale specializzato in diritti sportivi (il capo è Philippe Blatter, figlio di Joseph, presidente della Fifa) la cui filiale italiana è guidata da uomini di matrice berlusconiana: Marco Bogarelli, che è stato nel cda di Milan Channel, il suo vice Andrea Locatelli ha lavorato otto anni in Fininvest. E Riccardo Silva, l’omologo di Bogarelli che con la Media Partners & Silva vende i diritti all’estero, è il presidente e proprietario di Milan Channel. A fine agosto, sette club di Serie A hanno scritto alla Lega una lettera indignata: il mandato che la Lega di Adriano Galliani (numero uno del Milan) aveva affidato nel 2007 a Infront scade nel 2016, ma la società di Bogarelli sta già provando a vendere i diritti anche per il triennio 2015-2018. E Juventus, Roma e Inter (più Fiorentina, Sassuolo, Sampdoria ed Hellas Verona) non hanno intenzione di accettare un’altra tornata di negoziati in cui pare esserci “una evidente carenza di progettualità per lo sviluppo a lungo termine e per il conseguente incremento dei ricavi”. Anche Sky ha dichiarato guerra: il responsabile dei canali sportivi, Jacques Raynaud, ha scritto una lettera sul Corriere della Sera per chiedere la fine di un sistema di vendita da cui ha beneficiato soprattutto il diretto concorrente, cioè Mediaset. Nella riunione in Lega di ieri, Infront ha chiesto un rinnovo del mandato dal 2015 al 2021, tra 2015 e 2018 promette alla Lega un minimo garantito di 900 milioni di euro e nei tre anni successivi 930 milioni. Per il disturbo Bogarelli trattiene una trentina di milioni di commissione. I club ribelli si chiedono: come è possibile che la Premier League valga 3 miliardi e la Serie A meno di 1? Gli esperti di settore dicono che il valore viene dall’esclusiva: se il trionfo della Roma sull’Inter di domenica sera si può vedere sia su Sky che su Mediaset, il suo prezzo scende. Offrire gli stessi match su più piattaforme toglie attrattiva. Il gruppo di Murdoch vorrebbe quindi alcuni pacchetti in esclusiva, Mediaset si oppone. La Infront minaccia una terza soluzione traumatica che dovrebbe far rientrare le ribellioni: se non si trova un compromesso, la Lega venderà da sola le sue partite, facendo una televisione controllata direttamente dai club. Per Sky sarebbe l’apocalisse. Per Mediaset invece no, come spiega un esperto al Fatto : la Lega dovrebbe affittare frequenze tv da cui trasmettere, e Mediaset ne ha in abbondanza (più complicato per Rai e Telecom), poi servirebbe un lavoro di produzione, di cui già si occupa in parte Infront, infine serve una tecnologia che discrimini chi paga l’abbona - mento e chi no. Guarda caso l’unica disponibile in Italia è quella dei decoder Nagra (c’era quella alternativa di Telecom e poi Dhalia, ma è stata abbandonata). Le partite della Lega, insomma, finirebbero comunque per passare dai decoder Mediaset Premium. E la tv berlusconiana potrebbe approfittarne per vendere anche altri prodotti, come i film. Negli altri paesi la concorrenza si fa offrendo prodotti diversi, da British Telecom contro BSkyB in Gran Bretagna(sul 23.8°Est) a Sky Deutschland(sul 19.2°Est) contro Deutsche Telekom. In Italia i due contendenti offrono le stesse partite. E con la convergenza delle diverse piattaforme (le partite Sky si possono vedere sull’IPad) è sempre più arduo sostenere che i due mercati – satellite e digitale – siano mondi non comunicanti. A parole tutti, dal consulente Infront ai club alle televisioni, dicono di voler “massimizzare il valore”, cioè portare quanti più soldi possibile nelle casse della Lega. Ma lo spezzatino sembra andare a beneficio quasi esclusivo di Mediaset, che si aggiudica la parte pregiata del calcio alla metà del prezzo di Sky. E anche di Riccardo Silva: la sua holding irlandese Media Partners & Silva, secondo l’agenzia Radiocor , ha distribuito dividendi sul 2012 per 70 milioni. Ma i ricavi per la cessione delle partite di Serie A e Serie B all’estero avrebbe determinato ricavi soltanto per 213 milioni (la Premier League inglese viene venduta per almeno 650 milioni di euro). Il modello Infront deve essere votato in Lega: i sette club ribelli possono bloccare il rinnovo del mandato alla società di Bogarelli (servono 14 voti a favore su 20). Ma circolano già sospetti sulla Sampdoria che sarebbe pronta a passare con il fronte Milan- Infront. E a quel punto l’attuale sistema verrebbe confermato fino al 2021. Per la gioia di Mediaset e del suo azionista più noto.

giovedì 26 settembre 2013

Noi italiani siamo tutti berlusconiani

Nel verminaio scoperchiato dalle intercettazioni dell’ennesimo scandalo Tav, quello di Firenze, c’è una frase che racchiude in sé gli ultimi 20 anni di politica italiana. La pronuncia Maria Rita Lorenzetti, ex governatrice pd della Regione Umbria, laureata in filosofia e dunque presidente di Italferr (la società di ingegneria delle Fs), quando uno dei suoi uomini l’avverte che lo scandalo è stato denunciato alla Procura. Testuale: “Oh ma ti rendi conto, cazzo! Che siamo diventati... ma io... guarda, ma veramente ci fanno diventare berlusconiani, e così!”. Ora che è agli arresti per associazione per delinquere, corruzione e traffico illegale di rifiuti, la zarina rossa potrà meglio riflettere su quella voce dal sen fuggita. E magari giungere alla conclusione che il rischio da lei paventato – “diventare tutti berlusconiani”–è già realtà. Non solo per lei che, a sentirla parlare, è impossibile distinguerla da un Verdini o da un Formigoni. Ma per tutto il politburo del Pd. Non c’è più né destra né sinistra. Al massimo esistono varie sfumature di berlusconismo: dalle più light alle più strong , dalle più soft alle più hard(qualcuno potrebbe fare facile illusione nominando nuovamente (H)ardcore come la famosa villa della brianza) . Ma tutte accomunate dall’arroccamento castal-partitocratico (il “primato della politica”), dall’allergia per i poteri di controllo indipendenti (i pochi magistrati non allineati e le rare sacche di libera stampa) e da una sorda ma rocciosa ostilità alla Costituzione. Fuori dal recinto berlusconiano non c’è agibilità politica, culturale, giornalistica. Lo dimostra l’isolamento siderale dei costituenti il movimento "5 Stelle", i soli in Parlamento a parlare un linguaggio totalmente estraneo al modello-base e da tutti guardati come marziani. Perciò le larghe intese sono una ferita sanguinante per gli elettori del Pd, mentre per gli eletti sono nient’altro che un’abitudine. Solo così spiega la nonchalance con cui il Pd s’è consegnato nelle mani di un noto condannato, prima facendogli scegliere il nuovo (si fa per dire) presidente della Repubblica, poi portandoselo al governo, infine pregandolo di restarvi anche dopo la condanna definitiva (con ridicoli inviti a “fare un passo indietro”). Lo sapevano e lo sanno tutti che Berlusconi sta al governo e in Senato solo per farsi gli affari propri e non finire in galera. Ma tutti hanno finto che fosse lì per spirito di servizio, per empito riformatore, per il bene del Paese. E ora fingono di meravigliarsi se, approssimandosi la data della decadenza dal Senato (ma soprattutto dall’immunità), fa un fischio e tutti i suoi parlamentari e ministri del Pdl scattano come un sol uomo per consegnargli le dimissioni in bianco. Non è l’ultimo atto: è solo l’ennesima estorsione di un interminabile racket – la trattativa Stato-Mediaset – per minacciare il Pd e soprattutto il Quirinale in vista dell’agognato salvacondotto. Mossa per nulla imprevista, anzi più volte annunciata. Ma accolta ancora una volta come un fulmine a ciel sereno da chi seguita a fingere di non sapere con chi ha a che fare. In un paese perlomeno decente, gli artefici e i trombettieri delle “larghe intese”, quelli che ancora l’altroieri blateravano della “lezione tedesca” come se la Merkel fosse la gemella di Berlusconi e l’Spd un Pd con la S, scaverebbero un buco e vi sprofonderebbero dentro, chiudendo il tombino. Ma non accadrà: si attendono nuovi appelli a Berluconi perché ritrovi il suo proverbiale senso di responsabilità e al Pd perché si metta una mano sulla coscienza e una sul portafogli, salvandolo come ha sempre fatto. Seguiranno nuovi moniti di Napolitano, cioè del primo responsabile di questo sconcio. Ieri assisteva silente su un trono dorato, circondato da noti pregiudicati, ai deliri di Stefania Craxi contro i giudici “comunisti” che, a suo dire, perseguitarono il padre Bettino, anzi come l'ha chiamato, visibile su un video di Youtube, il “Mitterrand italiano”. Un’altra scena che riassume a perfezione l’abisso in cui siamo precipitati: il presunto garante della Costituzione e presidente del Csm che non dice una parola, né pensa di alzarsi e andarsene, dinanzi a un’esagitata che beatifica un corrotto latitante e dà in escandescenze contro il potere giudiziario.Ecco perchè tutti gli italiani sono già tutti berlusconiani, a loro insaputa. A questo punto il sogno rimane "votare subito". Appunto, un sogno.

martedì 17 settembre 2013

PD, PDL e lo schifo tipicamente italiano

Prima di scrivere un nuovo post volevo attendere la votazione del Senato, che come tradizione italiana dovrebbe insegnarmi va sempre più per le lunghe: si temporeggia, sia a destra che a sinistra, quando si dovrebbe agire.
In effetti il dibattito pro o contro il voto segreto in Senato sulla decadenza di Berlusconi dà la misura definitiva dell’abisso in cui sono precipitati i partiti. E chi non se ne rende conto, accettando anche soltanto di discuterne, non fa che aggravare la sua posizione. In un altro paese tutti i senatori, senza distinzione di colore, voterebbero senz’indugio per espellere un pregiudicato per frode fiscale e non farvelo tornare mai più. E solo in un postaccio come il Parlamento italiano qualcuno può temere che non lo faccia neppure la metà più uno dei senatori. Intendiamoci: è ovvio che, in assoluto, il voto segreto è una vergogna. I cosiddetti rappresentanti del popolo devono rendere conto ai cittadini in ogni momento, senza poter tirare la pietra e nascondere la mano. Anche e soprattutto per i cosiddetti “casi di coscienza” che finora han giustificato il ricorso allo scrutinio segreto. Ma questo semmai può dirlo Grillo, o qualcuno dei suoi appena arrivato in Parlamento: non chi ha sempre praticato il voto segreto (Grasso e Napolitano sono stati eletti solo grazie a quello) e ora vorrebbe abolirlo proprio sulla decadenza di Berlusconi, con una mossa contra personam che non solo è una forzatura giuridica e un regalo a chi vuol gabellare Berlusconi stesso per un perseguitato. È anche la prova provata che, grazie al Porcellum, i partiti hanno portato in Parlamento troppa gente senza princìpi, scrupoli, dignità. Del Pdl si sapeva: i parlamentari li ha nominati personalmente Silvio secondo il criterio della fedeltà cieca e assoluta. Gente disposta a votare mozioni come quella su Ruby nipote di Mubarak è capace di tutto: anche di approvare la legge Severino per cacciare i condannati e poi, nove mesi dopo, di sostenere che non vale per i già condannati, ma solo per chi lo sarà per reati ancora da commettere. Ma il Pd? Non aveva fatto le primarie? Non aveva rinnovato la sua rappresentanza con forze fresche e pulite? Così ci avevano raccontato. Poi, alla prima prova, almeno 101 (ma forse 120) neoeletti si sono rivelati uguali o peggiori dei precedessori: capaci al mattino di acclamare Prodi presidente della Repubblica e nel pomeriggio di votargli contro per compiacere Berluskaiser(© Bossi, 1994). I capicorrente li conoscono uno per uno, eppure non hanno preso provvedimenti, anzi custodiscono da cinque mesi il segreto su quei 101-120 nomi con un’omertà degna di Cosa Nostra. E ora scoprono all’improvviso che, se – come vuole la prassi per le decisioni sui singoli – si vota a scrutinio segreto sulla decadenza di Berlusconi, la banda dei franchi traditori potrebbe tornare in azione, salvare il Caimano e distruggere definitivamente il partito. Così, anziché smascherare i felloni, chiedono di cambiare le regole in corsa per ottenere il voto palese. O preparano trucchetti da magliari, come quello suggerito da Miguel Gotor, già geniale spin doctor di Bersani: “I 108 senatori Pd infilino nella buca solo l’indice della mano sinistra, così è fisicamente impossibile un voto diverso dal Sì. Ci mettiamo d’accordo con alcuni fotografi che riprendono la scena, postiamo tutto sui social network ed evitiamo guai”. Sembra uno scherzo. Per legge i cittadini, quando vanno a votare, devono consegnare i cellulari prima di entrare in cabina per non rendere il voto riconoscibile: e chi ha fatto questa legge la viola spudoratamente perché non si fida neppure di se stesso? Ma che partito è quello che non riesce neppure a garantire la decadenza, imposta dalla legge, di un condannato per frode fiscale? Questo dovrebbero chiedersi gli elettori che affollano le feste del Pd e sognano a buon diritto rappresentanti migliori. Anziché rallegrarsi per la presunta “trasparenza” mostrata dal partito con la richiesta di voto palese, dovrebbero inchiodare i leader con una semplice domanda: ma che gente ci avete fatto votare alle primarie? Possibile che, invertendo i criteri di selezione delle candidature, il prodotto non cambi? C’è un virus nell’aria delle aule parlamentari che corrompe tutto e tutti, o c’è qualcosa che ancora non sappiamo? Speriamo di no.

giovedì 1 agosto 2013

La caduta

Berlusconi, chi l’avrebbe mai detto che il compare di Mangano, Gelli, Craxi, Dell’Utri e Previti - per citare solo i migliori - già amnistiato per falsa testimonianza, prescritto due volte per corruzione giudiziaria e cinque per falso in bilancio e una per rivelazione di segreto, tuttora imputato per corruzione di senatori e indagato per induzione alla falsa testimonianza, nonché condannato in primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile, avrebbe potuto un giorno o l’altro diventare un pregiudicato? Era tutto un darsi di gomito, uno strizzare d’occhi, un “tutto si aggiusta” all’italiana, con leccatine agli “assi nella manica” del sommo Coppi, dipinto come il mago di Arcella che fa assolvere i colpevoli. Invece da ieri anche la Cassazione, grazie a cinque giudici impermeabili a minacce e pressioni e moniti, ha detto ciò che chiunque volesse sapeva da tempo immemorabile: Silvio Berlusconi è un fuorilegge, un delinquente matricolato, colpevole di un reato – commesso anche da premier e da parlamentare - che in tutto il mondo lo porterebbe dritto e filato in galera per un bel po’. In America, per incastrare il suo spirito guida Al Capone, bastò la frode fiscale. In Italia, grazie anche all’indulto-insulto regalatogli da un centrosinistra così tenero che si taglia con un grissino,recitava la pubblicità, Al Tappone finirà ai domiciliari per un annetto. O, se li chiede, ai servizi sociali. I giudici milanesi lo manderanno a prendere dai carabinieri in autunno, non appena riaprirà il Tribunale. L’ignaro Epifani annuncia tonitruante che il suo Pd, se necessario, è pronto a rendere esecutiva la sentenza: non si dia pena, la sentenza è esecutiva a prescindere da lui. Come tutto il resto. Per arrestare un condannato, anche se parlamentare, non c’è bisogno di Epifani, né del Parlamento, né di nessuno. Piuttosto sarebbe interessante sapere con che faccia il Pd possa restare alleato con un pregiudicato prossimo all’arresto purché non faccia troppo casino: come se qualche parola o manifestazione scomposta fossero più gravi che mettere in piedi una monumentale frode fiscale.
E con che faccia il premier Nipote possa restare al governo col sostegno di B., magari per tuonare contro l’evasione fiscale, senza che gli scappi da ridere, a lui e a suo zio. Ma questa è la “separazione dei poteri” come la intendono i nostri politicanti: se un politico è indagato, attendono il rinvio a giudizio; se è rinviato a giudizio, attendono la condanna; se è condannato in primo grado, attendono l’appello; se è condannato in appello, attendono la Cassazione; e se è condannato in Cassazione, imboscano la sentenza in un cassetto perché bisogna separare la giustizia dalla politica. Solo sull’interdizione, quando sarà ricalcolata dalla Corte d’appello e confermata dalla Cassazione (pochi mesi), il Senato sarà interpellato: ma per ratificarla, non per discuterla o ribaltarla (è questa, cari analfabeti, la separazione dei poteri). E comunque i nostri tartufi si scordano un piccolo dettaglio: l’anno scorso Pd, Pdl e frattaglie centriste approvarono la legge “liste pulite” che dichiara decaduti e incandidabili i parlamentari condannati sopra i 2 anni: dunque neppure se fosse interdetto per un solo giorno B. potrebbe restare senatore e ripresentarsi alle prossime elezioni. A meno che, si capisce, l’abrogazione di quella norma giustizialista votata anche da B. non faccia parte delle “riforme della giustizia” invocate da Re Giorgio un minuto dopo la prova che la giustizia funziona. Ora i soliti idioti dicono che la Cassazione ha condannato 10 milioni di elettori del Pdl (che sono molti di meno): no, ha condannato un solo eletto. Ma anche, simbolicamente, tutti quelli che - sapendo chi era- l’hanno legittimato, ricevuto, favorito, riverito, salvato, strusciato, addirittura promosso partner di governo e padre costituente: da Napolitano in giù. Vergognatevi, signori. E rassegnatevi: la legge, ogni tanto, è uguale per tutti.O lo spero.

mercoledì 31 luglio 2013

In attesa della Sua caduta

Allego, in attesa di commentare la sentenza per il processo Mediaset, tre "vignette"





mercoledì 10 luglio 2013

Paese civile, società civile, legge iniqua?


Da molto sento parlare di "società civile", "paese civile", che "la legge è uguale per tutti" e via dicendo.Ne son piene le fosse come di dice in prosa. Mi sfuggono però i veri significati di questo abuso linguistico. Con l'aiuto di wikipedia cerchiamo di fare un sunto cronologico dell'accaduto al nostro beneamato cavaliere. Nel caso qualcuno leggesse ironia nelle mia parole, ne ha ben d'onde.


In un paese civile (per l'appunto) non ci sarebbe nemmeno discussione: un politico che per giunta sostiene il governo dopo averlo presieduto tre o quattro volte, imputato per frode fiscale, rinuncerebbe alla prescrizione per essere assolto nel merito, sempreché ritenesse di essere innocente. Perché, se dovesse mai incassare una prescrizione dopo due condanne, dovrebbe subito dimettersi da ogni incarico pubblico in base all’articolo 54 della Costituzione: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore"(grandi parole, soprattutto impegnative). E, se non gli fossero chiari, stiamo sempre ragionando per assurdo, i concetti di "disciplina e onore", provvederebbero i compagni (devo ricordare i nomi?) di partito e gli alleati di maggioranza (devo ricordare i nomi anche di costoro?), scaricandolo su due piedi per evitare l’imbarazzo di sedergli accanto. E il capo dello Stato rifiuterebbe di riceverlo al Quirinale, per i medesimi motivi. Ma, siccome siamo in Italia, dov’è reato dire "paese di £$#^@" ma è lecito far di tutto perché i cittadini, che non evadono un euro e pagano le tasse finanche all'ultimo centesimo, lo pensino, ecco il coro delle prefiche, dei servi e dei venduti contro la Cassazione che, horribile dictu, tenta di evitare che il processo Mediaset venga ancora falcidiato dall’ennesima prescrizione. I fatti sono chiari: quando i reati – falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita – furono scoperti (era il 2004), la frode ammontava a 368 milioni di dollari di costi gonfiati tramite società offshore per non pagare le tasse (fatti commessi nel 1995-'98, con effetti fiscali fino al 2003). Nel 2005 Berlusconi scoprì di essere indagato e impose subito l’ex-Cirielli, che tagliava la prescrizione da 10 anni a 7 anni e mezzo, e una raffica di condoni e scudi fiscali. Così ogni anno vide evaporare un pezzo del suo monumentale delitto e nel maggio scorso, quando arrivò la condanna d’appello, restavano 4,9 milioni di euro evasi nel 2002 e 2,4 nel 2003. Ma a metà settembre si estingueranno anche quelli del 2002. Dunque, se la Cassazione non sentenzia prima di metà settembre, la pena di 4 anni scenderà, probabilmente sotto i 3, con due conseguenze: il processo tornerà in Corte d’appello per rideterminarla; e sparirà la pena accessoria dell’interdizione di 5 anni dai pubblici uffici, prevista solo per le pene sopra i 3 anni. Insomma Berlusconi, che già non rischia il carcere perché ha più di 70 anni (grazie al regalo di compleanno contenuto nell’ex Cirielli) e perché 3 dei 4 anni sono coperti da indulto (gentile omaggio del centrosinistra a suo tempo), potrebbe restare tranquillamente in Parlamento. Almeno per un altro anno, fino a quando la Corte d’appello rideterminerà la sua pena. O per sempre, se poi la pena scendesse sotto i 3 anni. E qua vedremo le orde barbariche comunicative, capitanate da quelle persone coerenti che si chiamano Cicchito, Santachè, Capezzone e i direttori de Il Giornale e Libero di cognome, infiammare l'etere santificando il nostro beniamino. Peccato però che la Cassazione abbia l’obbligo di esaminare subito i processi a rischio di prescrizione o di decorrenza dei termini di custodia cautelare. Per evitare che i delitti restino impuniti (con grave danno per le vittime: in questo caso l’Erario, ovvero i cittadini) e che soggetti pericolosi escano dal carcere e spariscano dalla circolazione prima della condanna. La Sezione Feriale della Cassazione (esiste veramente e resta aperta durante le ferie estive, da luglio a settembre) è lì apposta: per trattare i processi che, diversamente da quelli normali rinviabili a dopo le vacanze, sono urgenti: quelli con imputati detenuti in scadenza e quelli – vedi decreto del primo presidente Ernesto Lupo del 24-6-2011 – "per i quali la prescrizione maturi durante la sospensione o nei successivi 45 giorni". Proprio il caso del processo Mediaset, che a metà settembre sarebbe dimezzato dalla prescrizione. Perciò è stato assegnato alla Sezione Feriale per il 30 luglio. E gli alti lai del Pdl&Co. sulla "fretta sospetta" (figuriamoci: per un processo nato più di nove anni fa!) della Cassazione per eliminare Berlusconi dalla vita politica sono pura propaganda, e di bassissima lega: come se la prescrizione fosse un diritto dell’imputato, o addirittura il fine ultimo del processo penale. Anche stavolta, la Cassazione ha trattato Berlusconi come qualunque imputato nelle sue condizioni, perché la legge, forse, è uguale per tutti. Ed è proprio questo lo scandalo. Il verdetto sarà equanime, ma sarà giusto ? Lo speriamo tutti, credo. :-)

martedì 9 luglio 2013

Quando si muore, si muore soli

Oggi do spazio ad un lettera dell'ex deputato del Pdl, Melania Rizzoli, medico, che spiega a tinte forti e crude, la tecnica del suicidio assistito dei malati terminali. Invita, noi tutti, a riflettere.

"
Il suicidio assistito è un’auto-induzione della morte con assistenza medica. Una pratica legale in diversi Paesi europei, soprattutto in alcune cliniche svizzere dove circa dieci italiani al mese ricorrono con successo a questo metodo letale. I pazienti vengono valutati con seria professionalità in base alle loro condizioni cliniche e psicologiche di salute e viene ammessa alla procedura solo una parte di loro, in base a criteri specifici,
soprattutto persone allo stadio terminale di malattia o soggetti  depressi irreversibili con spiccato e manifesto mal di vivere. Dimenticate però quello che avete visto nei film, l’arrivo in una linda clinica del potenziale suicida ricoverato in una camera con vista sul laghetto dorato in un’atmosfera di musica soffusa e di sorrisi, adagiato su un letto inamidato, confortato e salutato dai parenti mentre i sanitari gli infilano una flebo medicata che lo farà addormentare e poi morire dolcemente nel sonno grazie al cocktail letale di veleno farmacologico infuso a goccia lenta, per dar loro il tempo delle ultime parole e degli ultimi desideri. Non funziona così. La selezione dei candidati alla morte è durissima e inflessibile; ai prescelti viene spiegata in dettaglio, con competenza e professionalità, la procedura, il suo esatto svolgimento e l’esito finale, compresi effetti collaterali, imprevisti e procedure post mortem.
Sono centri in cui si aiuta a morire, non a vivere. Spesso per i pazienti quel colloquio è una dolorosa sorpresa e molti di loro rinunciano, tornando indietro sulle loro decisioni, ma alcuni ci ripensano e ritornano più volte
finché non trovano il coraggio. Perché il coraggio? Perché lo devono fare da soli. Per questo si chiama suicidio. A ognuno di loro viene infatti spiegato che il medico specialista prepara il mix letale di barbiturici nella dose calcolata a provocare la loro morte, in base al loro peso e alle loro condizioni cliniche, ma
il cocktail di farmaci mortali viene preparato in un bicchiere diluito in acqua, che viene posto sul comodino accanto al letto e che il paziente, cosciente e nel pieno delle sue facoltà mentali, quando riterrà di essere psicologicamente pronto, dovrà bere da solo, di sua spontanea volontà fino all’ultima goccia e senza l’aiuto di una mano amica, per poi attendere la perdita dei sensi, l’oblio della coscienza e il suo conseguente arresto cardiaco. L’assistenza sanitaria nel corso del suicidio assistito del paziente viene assicurata da una idratazione endovenosa senza farmaci specifici e da un monitoraggio continuo del sistema cardiovascolare, seguito e controllato fino al bip finale che conferma l’ultima contrazione cardiaca con l’arresto cardiocircolatorio e la morte. In tutti i Paesi dove si pratica il suicidio assistito non è legalmente ammesso l’intervento materiale e attivo del medico alla somministrazione orale o endovenosa dei farmaci mortali, altrimenti si tratterebbe di quella che viene definita “eutanasia attiva”. Bisogna anche sottolineare, però, che non tutti i centri clinici seguono rigidamente le regole secondo la legge, tanto che in alcuni casi il farmaco mortale viene diluito in una flebo che viene montata in vena chiusa e che il paziente dovrà azionare da solo con le sue mani, per morire prima e più rapidamente. Negli ultimi mesi sono stati resi noti alle cronache diversi suicidi assistiti di personaggi famosi che in silenzio e senza clamore si sono recati in Svizzera più volte per porre fine alle loro sofferenze, riuscendo, per i motivi su descritti, a esaudire il loro desiderio solo al secondo o terzo tentativo, e pur non essendo afflitti da malattie terminali hanno denunciato con l’ultimo gesto, l’irrefrenabile volontà di morire in modo assistito, senza azioni di autolesionismo violento e traumatico, ben consapevoli che nel loro Paese non avrebbero potuto realizzare legalmente questo proposito. Quando il paziente viene ammesso al protocollo “di cura” deve prima firmare le autorizzazioni per la sua morte programmata e viene girato un breve video in cui l’aspirante suicida dichiara di essere in piene facoltà mentali e di accettare volontariamente il trattamento. È doveroso aggiungere che tra i pazienti affetti da malattie inguaribili solo un numero irrilevante di loro desidera con forza porre fine alle proprie sofferenze, perché il desiderio di vita quando si è malati prevarica sulla morte pur se imminente. Molti autorevoli personaggi italiani del mondo della scienza, della cultura, della politica e del giornalismo si sono espressi più volte pubblicamente su questi temi, con opinioni contrastanti, ma è bene ricordare che una cosa è discuterne da sani, seduti in un salotto televisivo, un’altra è affrontare concretamente l’argomento quando si è malati, distesi su un letto attaccati alle flebo e si avverte vicino il profumo della morte. Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile, rispettando la libera autodeterminazione della coscienza è il compito e il dovere di noi medici, che siamo addestrati e abilitati a custodire e proteggere la vita e non a sopprimerla a richiesta, anche se sappiamo bene che ogni caso è diverso e va valutato in scienza e coscienza. Posso solo aggiungere che ho lavorato per dieci anni in un dipartimento oncologico seguendo molti malati terminali e alleviando con ogni mezzo le loro sofferenze sempre fino alla fine. Non è mai successo che qualcuno di loro mi pregasse di aiutarlo a morire. Mai. Nemmeno quando erano divorati dal cancro e vicini alla fine. Anzi. In quei momenti, la cosa che mi colpiva di più era che da quei corpi devastati, piagati e piegati dalla malattia, si accendeva uno sguardo, usciva una flebile voce che manifestava un solo terribile desiderio: quello di vivere.
"

giovedì 4 luglio 2013

Meno e-mails, più chiacchiere

Prendo spunto da un articolo sulla Ferrari comparso qualche giorno fa sulla "rosea"(Gazzetta dello Sport, n.d.r.) per riportare la riflessione sulla comunicazione "elettronica" nel blog.

«Scrivetevi di meno e parlatevi più». L’ordine di scuderia è chiaro: basta alle email selvagge e indiscriminate. Alla Ferrari vanno veloci, non hanno tempo da perdere. E quelle migliaia di missive aziendali, spedite in copia conoscenza, intasano quotidianamente i computer e sono un vero freno a mano per la Rossa, come per  molte medie e grandi aziende (forse anche per la mia, n.d.r.). Fanno perdere infatti ad impiegati e manager dalle cinque alle venti ore a settimana per controllarle e rispondere, senza contare che il 20 per cento tratta argomenti e problemi che non riguardano proprio chi le ha ricevute. Da Maranello a New York, da Parigi a Milano, è partita la guerra alla posta selvaggia, alle comunicazioni aziendali inviate a tutti per sicurezza o piaggeria, per lavarsi la coscienza in caso di futuri rimproveri o per superficialità e distrazione. Così, se alla Ferrari, su indicazione del presidente Luca Cordero di Montezemolo, hanno fissato un limite (al quarto destinatario comune da oggi scatta il blocco sul computer), alla Atos, colosso dei sistemi informatici, sono stati ben più drastici e in dodici mesi hanno ottenuto un calo del 20 per cento delle comunicazioni aziendali e puntano dichiaratamente allo zero.
«Se qualcuno mi vuol parlare può chiamarmi o mandarmi un messaggio via chat». Parola di Thierry Breton, amministratore delegato di Atos, ex ad France Telecom nonché ex ministro delle finanze francesi che nell’azienda informatica da un paio di anni ha favorito per le comunicazioni interne una chat oltre ai social
network, consentendo un risparmio di un quinto del tempo. C’è chi come lui punta all’abolizione perenne delle email e chi ha fatto un esperimento. Shayne Hughes, che ha una società di consulenza e coaching per  manager le aziende, una mattina ha annunciato al suo staff il divieto di usare le comunicazioni interne
via web per una settimana. «Si è scatenato il panico: “Non riusciremo a fare nulla, passeremo il tempo interrompendoci ogni due minuti, sarà il caos”, sono state le proteste immediate. La verità è che le email facilitano la comunicazione pigra e superficiale. Troppo spesso scriviamo di corsa, senza pensare a fondo, premiamo il tasto e via, ormai è un tuo problema». Il risultato di una settimana di vuoto, dice la manager, è che il gruppo ha riscoperto le priorità, tutti sono diventati più consapevoli di cosa si voleva dire, di come dirlo e soprattutto a chi. «Perdendo l’illusione che mandando a tutti le email avremmo risolto qualsiasi problema».
Perché inondare il resto dei colleghi di missive che non li riguardano è vera e propria maleducazione, dicono alla Ferrari. «È un’invasione, è burocrazia. Ti senti l’anima in pace perché hai spedito la lettera senza pensare al tempo che fai perdere all’altro che deve leggersi righe su righe prima di capire che quel messaggio non c’entra nulla col suo lavoro ». Alla Rossa preferiscono i rapporti diretti: «Qualcuno qui è terrorizzato dalla novità, ma in realtà noi siamo in tremila, tutti nello stesso posto, un colpo di telefono, quattro passi. Si fa prima e ci si capisce meglio».
Condividono Oltreoceano, dove in un blog tra imprenditori che hanno provato ad abolire le email interne,dopo un iniziale scetticismo dei dipendenti, il risultato è stato chiaro: meno stress per tutti e più produttività. Tra email di lavoro e private gli italiani sono sommersi quotidianamente da 700 milioni di missive, che li raggiungono in oltre 63 milioni di indirizzi, due a testa, uno di lavoro e uno privato. In un perenne “C’è posta per te” difficile da abolire. E passiamo a Marco Zamperini, direttore ricerca e sviluppo della Ntt Data Italia, che ha sottolineato più volte come la posta aziendale sia usata spesso male. «Soprattutto quando si abusa del “Cc”, il campo usato dai furbi, di chi ti manda copie inutili per conoscenza ma almeno può dirti “ti avevo scritto...”. Sarebbe meglio usare i social media o la chat nelle imprese». Poi anche lui deve essersi arreso, sperando nella buona educazione dei colleghi, se sulla segreteria telefonica dice, non si sa quanto ironicamente: «Per contattarmi, mandatemi una mail».

:-)

lunedì 1 luglio 2013

El Pepe: l’Uruguay ed il suo leader povero

Incollo qui il risultato di alcune ricerche fatte (Wikipedia, giornali online, e-zine e tutto il materiale digitale possibile) sul presidente dell'Uruguay, El Pepe. Copre molto gli onori della ribalta in questo momento economico davvero delicato, capiamo assieme perchè.


"Il passato? È come uno zaino. Te lo porti sulle spalle ovunque vai. Ma, mentre cammini, guardi avanti…”. Questo ama ripetere Jose Mujica Cordano, meglio noto come “el Pepe”, da tre anni presidente della Republica Oriental del Uruguay. E non v’è dubbio che in quella mochila Mujica abbia, nei suoi 78 anni di vita, accumulato davvero molte cose. Ricordi pesanti come macigni e cupi come la galera nella quale ha trascorso 14 anni della sua vita, fardelli che, sebbene in grado di piegare ogni schiena, non gli hanno mai impedito di camminare diritto. Guerrigliero, volgare, semplice, trasandato, geniale, sporco, coerente, pericoloso, affidabile, ipocrita, saggio. E proprio così - “un uomo saggio” - lo ha senza riserve definito, solo qualche settimana fa, al termine d’un incontro in Vaticano,
papa Francesco I, nonostante la legge di depenalizzazione dell’aborto da poco approvata dal governo che Mujica presiede. Su un solo aggettivo tutti sembrano però concordare: “povero”.

La fattoria e il Maggiolino
José Mujica Cordano è infatti povero nel più materiale significato del termine.  Perché possiede poche cose. Una piccola chacra (fattoria) nel Rincón del Cerro, alla periferia ovest di Montevideo, dove da anni coltiva crisantemi che vende al mercato. Una vecchia casa campestre con i muri anneriti dall’umidità dove, disdegnando la sontuosa residenza presidenziale di Suarez y Reyes, continua a vivere con la moglie Lucía Topolansky e con l’ormai leggendaria Manuela, la cagnetta a tre zampe che lo segue ovunque. Altri possedimenti: un maggiolino Volkswagen del 1994 ed un vecchio trattore. 
Totale imponibile: a occhio e croce, poco più di 100.000 euro. In qualità di presidente della nazione, “el Pepe” gode, inoltre, d’un appannaggio mensile pari a circa 15.000 euro, il 90 per cento dei quali vengono da lui devoluti a favore d’un programma di edilizia popolare. Ed è proprio quest’ultimo - il “presidente povero” d’un piccolo- grande paese - il Mujica che, con ostentato giubilo, il mondo ha di recente scoperto. Lo ha fatto grazie soprattutto a un discorso che è rapidamente diventato, non solo una sorta di manifesto per i verdi
sostenitori dello “sviluppo sostenibile”, ma anche una sorta di neo-francescano inno alla povertà. Povero, ha detto Mujica a Rio - citando Epicuro e Seneca - non è chi possiede poco, ma chi sente la necessità di molto più di quanto occorra per raggiungere quella cosa semplice e dimenticata che si chiama “felicità”. È per essere felici - non per produrre e consumare cose che non ci servono - che siamo al mondo, ha detto “el Pepe”. E lo ha fatto con la stessa “rivoluzionaria” innocenza del bambino della favola di Andersen.

Ma è davvero tutto qui il “vero” José Mujica Cordano? La risposta la si può trovare, in parte, nella mochila che “el Pepe” si porta addosso e, in parte, nel suo presente presidenziale. Perché all’interno di quello zaino non si intravede altro che un inestricabile coacervo di contraddizioni, una realtà arruffata come la capigliatura del proprietario. C’è, in quella mochila, il Mujica guerrillero, la realtà d’una esperienza di partecipazione alla lotta armata degli anni ’60 e ’70, alla quale el Pepe è arrivato, non attraverso classici sentieri di sinistra, ma partendo dalla realtà blanca , conservatrice, del Partido Nacional. O meglio: del partito della campagna, contrapposto al progressivismo urbano, massone, del Partido Colorado. Mujica si riconosce nella parte più popolare, contadina, dei nazionalisti: quella del presidente Bernardo Berro (l’uomo che abolì la schiavitù) e, soprattutto, del caudillo gaucho Timoteo Aparicio, protagonista, nel 1870, de la revolución de las lanzas, forse l’ultima guerra combattuta e (almeno temporaneamente) vinta usando prevalentemente armi non da fuoco.
Il Mujica Tupamaro nasce qui, illuminato, in lande molto lontane dal marxismo, dalla novità della rivoluzione cubana, ed alimentato da un’infatua - zione militarista che andava ben oltre i dettami del nascente “foquismo” guevariano. E qui nascono, di conseguenza, anche il Mujica combattente e il Mujica “prigioniero di guerra”, arrestato, fuggito, arrestato di nuovo nel 1972, un anno prima del golpe militare, ed in carcere rimasto - per almeno tre anni in condizioni disumane - fino al 1985, anno del ritorno della democrazia. Molti suoi avversari gli rinfacciano d’avere sempre evitato - coprendosi dietro la cortina del generico ripudio della lotta armata - un’analisi vera, approfondita di quegli anni. E lo accusano anche di continuare ad alimentare il mito romantico
d’una guerriglia contrapposta alla dittatura. Al di là di questa disputa storico-politica, un fatto è tuttavia certo. Di quei giorni di violenza e di morte racchiusi nello zaino, Mujica sembra oggi non sentire il peso. O, più esattamente: di quei giorni che, per lui, significarono sofferenze inflitte (non molte) e sofferenze subite (moltissime), sembra non portare alcuna cicatrice. Perché è a tutti gli effetti un uomo senza rancori, senza desideri di vendetta e, persino senza ansie di giustizia.
Il prigioniero ed il combattente
Che altro si trova nella mochila di el Pepe? Una quantità di cose: intuizioni geniali, improvvisazioni, idee lasciate a metà, molte delle quali immancabilmente destinate a far rizzare i capelli in testa ai suoi più entusiasti ammiratori “verdi”. José
Mujica Cordano, presidente della Republica Oriental del Uruguay è infatti davvero - come testimonia il suo discorso di Rio - un poeta del “ritorno alla Madre Terra”. Mujica è un inflessibile, fanatico quasi, assertore della necessità di coltivazioni transgeniche. E la terra, per lui, presidente povero, esiste (e va amata) solo in quanto produttrice di cibo o, comunque, di ricchezza. Una convinzione, questa, che lo ha di recente portato ad ipotizzare la lottizzazione delle spiagge di Cabo Polonio perché (questo disse prima che lo scandalo lo forzasse alla retromarcia) così com’è oggi serve soltanto a unos lagartos (ad alcune lucertole, con ovvio riferimento ai turisti che ivi s’abbronzano). Ed oggi? Cosa ci offre oggi? Rispondere non è facile. L’Uruguay che desidera è “un paese agro-intelligente” capace d’usare le sue risorse naturali per raggiungere la modernità. Ed il socialismo che lui auspica è, in aperto contrasto con Hugo Chávez (un presidente del quale, pure, Mujica ha sempre parlato con ammirazione), un socialismo lontano, ancora bisognoso, per cominciare a realizzarsi, di molte fasi intermedie (“prima di distribuire la ricchezza bisogna crearla” ha detto el Pepe nel suo discorso inaugurale) e sicuramente non il semplice prodotto di “un ampiamento del ruolo e delle dimensioni dello Stato”. Un sogno, insomma, al quale fa da contrappeso la realtà di una politica economica che, sotto la molto ponderata e continuista guida del “comasco” Danilo Astori, non ha subito, in Uruguay, variazioni di sorta rispetto agli anni di Tabaré Vasquez. Chi può dirlo? Forse hanno ragione quanti credono che di José Mujica – già oggi, a due anni dalla fine del suo mandato, più popolare fuori che dentro il paese - non sia destinata a restare, a conti fatti, che quella quasi folcloristica immagine di povertà. Il ricordo d’uno stile di vita, una piccola nota a piè di pagina nei trattati di Storia del secolo XXII. Null’altro che una fotografia sbiadita. Ma, in ogni caso, una bella fotografia. Anzi: una fotografia a suo modo unica e capace, già oggi, d’ispirare un senso acuto di nostalgia. Riuscirà il mondo, in futuro, a trovare un altro Pepe?

mercoledì 26 giugno 2013

Errata corrige all'articolo di ieri, "Non larghe intestese, ma buone pene."

Mi son giunte alcune pesanti critiche di non-trasparenza per l'articolo di ieri:
Ed ecco subito che Nico fa ammenda:
Tra i processi arrivati a sentenza definitiva, Silvio Berlusconi conta sei prescrizioni (i falsi in bilancio del caso Lentini e i due Fininvest, la corruzione in atti giudiziari del Lodo Mondadori e del processo Mills, il finanziamento illecito ai partiti dell’All Iberian 1), tre assoluzioni (Sme-Ariosto 1, Medusa Cinema, Tangenti alla Guardia di Finanza), due depenalizzazioni (Sme-Ariosto 2, All Iberian 2) e 2 amnistie (per i terreni di Macherio e la falsa testimonianza sull’iscrizione alla loggia P2).
In primo grado Berlusconi ha ricevuto tre condanne, tutte negli ultimi mesi: la frode fiscale Mediaset, i nastri Unipol e (ieri) Ruby.
"Per la precisione", come diceva una volta il grande Massimo Buscemi, a "Quelli che il calcio" ;-)

martedì 25 giugno 2013

Non larghe intestese, ma buone pene.

Davvero qualcuno ha dovuto aspettare la sentenza del Tribunale di Milano per scoprire che Berlusconi Silvio va a puttane, preferibilmente minorenni, e abusa del suo potere e dei suoi soldi per nascondere la verità? Solo un Paese irrimediabilmente ipocrita, o disinformato, può meravigliarsi per un verdetto fra i più scontati della storia. Gli unici dubbi riguardavano la qualificazione dei reati e la quantificazione della pena. 
Ma i fatti erano accertati fin da subito: le telefonate notturne alla questura per far rilasciare Ruby sono incise nei nastri della polizia; le notti trascorse nella villa di Arcore dalla prostituta minorenne che poi se ne andava con le tasche piene di soldi sono dimostrate dai movimenti del suo cellulare; le deposizioni di decine
di test, tutti dipendenti o sul libro paga di Berlusconi, fra cui 4 o 5 parlamentari, un viceministro e alcune
mignotte, bastava ascoltarle per capire che erano false.
Che altro occorreva per farsi un’idea di quel che è successo e trarne le conseguenze?
Ma lo capiscono tutti che un miliardario non si fa portare 30 ragazze a botta, fra cui diverse prostitute (meglio definirle escort) e alcune minorenni, pagandole 2-3 mila euro se non dormono da lui e 5-6 mila se dormono da lui, per mostrare loro la sua collezione di farfalle. E non si scapicolla nottetempo per terremotare
un’intera questura, avvertito da una prostituta brasiliana, per far liberare una prostituta marocchina, coprendosi di ridicolo con la frottola della nipote di Mubarak, se non volesse tapparle la bocca su qualcosa che è meglio nascondere.
Queste panzane possono reggere in Parlamento, sui giornali, in tv. Per nostra fortuna c’è almeno un luogo, in
Italia, impermeabile alle balle: il Tribunale, nella fattispecie quello di Milano.
E non solo alle balle. 
Le giudici Turri, De Crostofaro e D’Elia, insultate e minacciate dall’imputato Berlusconi Silvio e dai suoi colonnelli(Cicchitto, Santachè, Brunetta e Capezzone), derise  dalla delegazione parlamentare Pdl in marcia sul Tribunale, depistate da orde di falsi testimoni, intralciate da manovre e cavilli assortiti (ricusazioni,  legittimi impedimenti, ileiti acute e malattie immaginarie, ricorsi alla Consulta), provocate dagli onorevoli  avvocati, "avvertite" dal capo dello Stato che ancora l’altro giorno ammoniva le toghe a tener conto delle conseguenze politiche dei loro atti, e infine intimidite dall’infame clima di larghe intese che butta tutto in politica e carica i giudici di responsabilità che non possono né devono avere, hanno tenuto i nervi saldi e sentenziato "sine spe ac metu", come dicevano i latini in tempi i cui i sentenziare la verità ancora aveva un senso. Senza lasciarsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno.
Tutti sanno che il Colle e il Pd, da quando è nato il governo-inciucio, auspicavano una sentenza la più blanda possibile per tener buono il prezioso alleato ed evitare che gli elettori ricordino chi è: invece la condanna è
stata più severa di quella chiesta dai pm.
Una sentenza non di larghe intese, ma di larghe pene. Che però non può aggiungere nulla all’indecenza del personaggio politico che ci ha inginocchiato per 18anni, già ampiamente dimostrata dalle sentenze sulle tangenti alla Guardia di Finanza, sui 23 miliardi di lire a Craxi, sui fondi neri per 1.500 miliardi di lire, sulle frodi fiscali sui film, sulla corruzione di Mills, sulle mazzette ai giudici del caso Mondadori, casomai qualcuno le avesse lette. Ora i servi, le prefiche e i finti tonti si domandano affranti se Berlusconi farà saltare il tavolo dell’inciucio: ma quando gli ricapita un governo dove la fa da padrone dopo aver perso le elezioni? La vera domanda è un’altra: che ci fa il Pd al governo con uno così? Ma valeva anche prima, e nessuno la pose. In Italia si attendono sempre le sentenze e poi, quando arrivano, nessuno le legge.
È il Paese dell’amnesia.
Che fa rima con anestesia.
E con amnistia.

lunedì 27 maggio 2013

Rachele Nibali scrive al marito

Incollo qui la lettera di Rachele Nibali, a suo marito, dopo la conquista del 96° giro d'Italia.

LA LETTERA DELLA MOGLIE

«Orgogliosa di dividerti con i tifosi»

Caro Vincenzo, tante cose ti ho già detto in questi giorni e altre me
le sono conservate per i prossimi, quando finalmente avremo un po’ di tempo per noi.
Adesso, però, mi piace l’idea di rendere pubblici alcuni pensieri, perché
mentre ti guardavo commosso sul podio ho realizzato che ora ti dovrò dividere ancora di più con i tifosi.
E contrariamente a quanto avrei pensato tempo fa, ne sono felice.
Non è l’unica convinzione che mi hai costretto a cambiare:
prima di conoscerti l’idea di vivere un rapporto di coppia con un uomo così spesso «in fuga» non mi avrebbe sfiorata. Ora, mi sembra del tutto normale. Hai vinto il Giro, amore mio. Sei stato tu a insegnarmi
quanto sia importante nell’immaginario della brava gente italiana.
Ora che sei entrato nella storia della corsa, vorrei solo dire a tutti come la
dimensione del Nibali personaggio sia sovrapponibile a quella del Vincenzo privato
che amo: la cortesia, la generosità e la timidezza che ti si leggono in faccia sul podio fanno parte
di te. Sono timorosa di rileggermi sulla Gazzetta, perché mi sembrerà
di aver scritto un sacco di cavolate: ma volevo dirle, a te e a tutti quelli
che magari non ti conoscono, ma ti sono affezionati. Prima di
partire per la nostra vacanza, che sarà rigorosamente al mare;
di neve e montagne, per un po’, non vogliamo sentir parlare.
Rachele