mercoledì 31 luglio 2013

In attesa della Sua caduta

Allego, in attesa di commentare la sentenza per il processo Mediaset, tre "vignette"





mercoledì 10 luglio 2013

Paese civile, società civile, legge iniqua?


Da molto sento parlare di "società civile", "paese civile", che "la legge è uguale per tutti" e via dicendo.Ne son piene le fosse come di dice in prosa. Mi sfuggono però i veri significati di questo abuso linguistico. Con l'aiuto di wikipedia cerchiamo di fare un sunto cronologico dell'accaduto al nostro beneamato cavaliere. Nel caso qualcuno leggesse ironia nelle mia parole, ne ha ben d'onde.


In un paese civile (per l'appunto) non ci sarebbe nemmeno discussione: un politico che per giunta sostiene il governo dopo averlo presieduto tre o quattro volte, imputato per frode fiscale, rinuncerebbe alla prescrizione per essere assolto nel merito, sempreché ritenesse di essere innocente. Perché, se dovesse mai incassare una prescrizione dopo due condanne, dovrebbe subito dimettersi da ogni incarico pubblico in base all’articolo 54 della Costituzione: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore"(grandi parole, soprattutto impegnative). E, se non gli fossero chiari, stiamo sempre ragionando per assurdo, i concetti di "disciplina e onore", provvederebbero i compagni (devo ricordare i nomi?) di partito e gli alleati di maggioranza (devo ricordare i nomi anche di costoro?), scaricandolo su due piedi per evitare l’imbarazzo di sedergli accanto. E il capo dello Stato rifiuterebbe di riceverlo al Quirinale, per i medesimi motivi. Ma, siccome siamo in Italia, dov’è reato dire "paese di £$#^@" ma è lecito far di tutto perché i cittadini, che non evadono un euro e pagano le tasse finanche all'ultimo centesimo, lo pensino, ecco il coro delle prefiche, dei servi e dei venduti contro la Cassazione che, horribile dictu, tenta di evitare che il processo Mediaset venga ancora falcidiato dall’ennesima prescrizione. I fatti sono chiari: quando i reati – falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita – furono scoperti (era il 2004), la frode ammontava a 368 milioni di dollari di costi gonfiati tramite società offshore per non pagare le tasse (fatti commessi nel 1995-'98, con effetti fiscali fino al 2003). Nel 2005 Berlusconi scoprì di essere indagato e impose subito l’ex-Cirielli, che tagliava la prescrizione da 10 anni a 7 anni e mezzo, e una raffica di condoni e scudi fiscali. Così ogni anno vide evaporare un pezzo del suo monumentale delitto e nel maggio scorso, quando arrivò la condanna d’appello, restavano 4,9 milioni di euro evasi nel 2002 e 2,4 nel 2003. Ma a metà settembre si estingueranno anche quelli del 2002. Dunque, se la Cassazione non sentenzia prima di metà settembre, la pena di 4 anni scenderà, probabilmente sotto i 3, con due conseguenze: il processo tornerà in Corte d’appello per rideterminarla; e sparirà la pena accessoria dell’interdizione di 5 anni dai pubblici uffici, prevista solo per le pene sopra i 3 anni. Insomma Berlusconi, che già non rischia il carcere perché ha più di 70 anni (grazie al regalo di compleanno contenuto nell’ex Cirielli) e perché 3 dei 4 anni sono coperti da indulto (gentile omaggio del centrosinistra a suo tempo), potrebbe restare tranquillamente in Parlamento. Almeno per un altro anno, fino a quando la Corte d’appello rideterminerà la sua pena. O per sempre, se poi la pena scendesse sotto i 3 anni. E qua vedremo le orde barbariche comunicative, capitanate da quelle persone coerenti che si chiamano Cicchito, Santachè, Capezzone e i direttori de Il Giornale e Libero di cognome, infiammare l'etere santificando il nostro beniamino. Peccato però che la Cassazione abbia l’obbligo di esaminare subito i processi a rischio di prescrizione o di decorrenza dei termini di custodia cautelare. Per evitare che i delitti restino impuniti (con grave danno per le vittime: in questo caso l’Erario, ovvero i cittadini) e che soggetti pericolosi escano dal carcere e spariscano dalla circolazione prima della condanna. La Sezione Feriale della Cassazione (esiste veramente e resta aperta durante le ferie estive, da luglio a settembre) è lì apposta: per trattare i processi che, diversamente da quelli normali rinviabili a dopo le vacanze, sono urgenti: quelli con imputati detenuti in scadenza e quelli – vedi decreto del primo presidente Ernesto Lupo del 24-6-2011 – "per i quali la prescrizione maturi durante la sospensione o nei successivi 45 giorni". Proprio il caso del processo Mediaset, che a metà settembre sarebbe dimezzato dalla prescrizione. Perciò è stato assegnato alla Sezione Feriale per il 30 luglio. E gli alti lai del Pdl&Co. sulla "fretta sospetta" (figuriamoci: per un processo nato più di nove anni fa!) della Cassazione per eliminare Berlusconi dalla vita politica sono pura propaganda, e di bassissima lega: come se la prescrizione fosse un diritto dell’imputato, o addirittura il fine ultimo del processo penale. Anche stavolta, la Cassazione ha trattato Berlusconi come qualunque imputato nelle sue condizioni, perché la legge, forse, è uguale per tutti. Ed è proprio questo lo scandalo. Il verdetto sarà equanime, ma sarà giusto ? Lo speriamo tutti, credo. :-)

martedì 9 luglio 2013

Quando si muore, si muore soli

Oggi do spazio ad un lettera dell'ex deputato del Pdl, Melania Rizzoli, medico, che spiega a tinte forti e crude, la tecnica del suicidio assistito dei malati terminali. Invita, noi tutti, a riflettere.

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Il suicidio assistito è un’auto-induzione della morte con assistenza medica. Una pratica legale in diversi Paesi europei, soprattutto in alcune cliniche svizzere dove circa dieci italiani al mese ricorrono con successo a questo metodo letale. I pazienti vengono valutati con seria professionalità in base alle loro condizioni cliniche e psicologiche di salute e viene ammessa alla procedura solo una parte di loro, in base a criteri specifici,
soprattutto persone allo stadio terminale di malattia o soggetti  depressi irreversibili con spiccato e manifesto mal di vivere. Dimenticate però quello che avete visto nei film, l’arrivo in una linda clinica del potenziale suicida ricoverato in una camera con vista sul laghetto dorato in un’atmosfera di musica soffusa e di sorrisi, adagiato su un letto inamidato, confortato e salutato dai parenti mentre i sanitari gli infilano una flebo medicata che lo farà addormentare e poi morire dolcemente nel sonno grazie al cocktail letale di veleno farmacologico infuso a goccia lenta, per dar loro il tempo delle ultime parole e degli ultimi desideri. Non funziona così. La selezione dei candidati alla morte è durissima e inflessibile; ai prescelti viene spiegata in dettaglio, con competenza e professionalità, la procedura, il suo esatto svolgimento e l’esito finale, compresi effetti collaterali, imprevisti e procedure post mortem.
Sono centri in cui si aiuta a morire, non a vivere. Spesso per i pazienti quel colloquio è una dolorosa sorpresa e molti di loro rinunciano, tornando indietro sulle loro decisioni, ma alcuni ci ripensano e ritornano più volte
finché non trovano il coraggio. Perché il coraggio? Perché lo devono fare da soli. Per questo si chiama suicidio. A ognuno di loro viene infatti spiegato che il medico specialista prepara il mix letale di barbiturici nella dose calcolata a provocare la loro morte, in base al loro peso e alle loro condizioni cliniche, ma
il cocktail di farmaci mortali viene preparato in un bicchiere diluito in acqua, che viene posto sul comodino accanto al letto e che il paziente, cosciente e nel pieno delle sue facoltà mentali, quando riterrà di essere psicologicamente pronto, dovrà bere da solo, di sua spontanea volontà fino all’ultima goccia e senza l’aiuto di una mano amica, per poi attendere la perdita dei sensi, l’oblio della coscienza e il suo conseguente arresto cardiaco. L’assistenza sanitaria nel corso del suicidio assistito del paziente viene assicurata da una idratazione endovenosa senza farmaci specifici e da un monitoraggio continuo del sistema cardiovascolare, seguito e controllato fino al bip finale che conferma l’ultima contrazione cardiaca con l’arresto cardiocircolatorio e la morte. In tutti i Paesi dove si pratica il suicidio assistito non è legalmente ammesso l’intervento materiale e attivo del medico alla somministrazione orale o endovenosa dei farmaci mortali, altrimenti si tratterebbe di quella che viene definita “eutanasia attiva”. Bisogna anche sottolineare, però, che non tutti i centri clinici seguono rigidamente le regole secondo la legge, tanto che in alcuni casi il farmaco mortale viene diluito in una flebo che viene montata in vena chiusa e che il paziente dovrà azionare da solo con le sue mani, per morire prima e più rapidamente. Negli ultimi mesi sono stati resi noti alle cronache diversi suicidi assistiti di personaggi famosi che in silenzio e senza clamore si sono recati in Svizzera più volte per porre fine alle loro sofferenze, riuscendo, per i motivi su descritti, a esaudire il loro desiderio solo al secondo o terzo tentativo, e pur non essendo afflitti da malattie terminali hanno denunciato con l’ultimo gesto, l’irrefrenabile volontà di morire in modo assistito, senza azioni di autolesionismo violento e traumatico, ben consapevoli che nel loro Paese non avrebbero potuto realizzare legalmente questo proposito. Quando il paziente viene ammesso al protocollo “di cura” deve prima firmare le autorizzazioni per la sua morte programmata e viene girato un breve video in cui l’aspirante suicida dichiara di essere in piene facoltà mentali e di accettare volontariamente il trattamento. È doveroso aggiungere che tra i pazienti affetti da malattie inguaribili solo un numero irrilevante di loro desidera con forza porre fine alle proprie sofferenze, perché il desiderio di vita quando si è malati prevarica sulla morte pur se imminente. Molti autorevoli personaggi italiani del mondo della scienza, della cultura, della politica e del giornalismo si sono espressi più volte pubblicamente su questi temi, con opinioni contrastanti, ma è bene ricordare che una cosa è discuterne da sani, seduti in un salotto televisivo, un’altra è affrontare concretamente l’argomento quando si è malati, distesi su un letto attaccati alle flebo e si avverte vicino il profumo della morte. Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile, rispettando la libera autodeterminazione della coscienza è il compito e il dovere di noi medici, che siamo addestrati e abilitati a custodire e proteggere la vita e non a sopprimerla a richiesta, anche se sappiamo bene che ogni caso è diverso e va valutato in scienza e coscienza. Posso solo aggiungere che ho lavorato per dieci anni in un dipartimento oncologico seguendo molti malati terminali e alleviando con ogni mezzo le loro sofferenze sempre fino alla fine. Non è mai successo che qualcuno di loro mi pregasse di aiutarlo a morire. Mai. Nemmeno quando erano divorati dal cancro e vicini alla fine. Anzi. In quei momenti, la cosa che mi colpiva di più era che da quei corpi devastati, piagati e piegati dalla malattia, si accendeva uno sguardo, usciva una flebile voce che manifestava un solo terribile desiderio: quello di vivere.
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giovedì 4 luglio 2013

Meno e-mails, più chiacchiere

Prendo spunto da un articolo sulla Ferrari comparso qualche giorno fa sulla "rosea"(Gazzetta dello Sport, n.d.r.) per riportare la riflessione sulla comunicazione "elettronica" nel blog.

«Scrivetevi di meno e parlatevi più». L’ordine di scuderia è chiaro: basta alle email selvagge e indiscriminate. Alla Ferrari vanno veloci, non hanno tempo da perdere. E quelle migliaia di missive aziendali, spedite in copia conoscenza, intasano quotidianamente i computer e sono un vero freno a mano per la Rossa, come per  molte medie e grandi aziende (forse anche per la mia, n.d.r.). Fanno perdere infatti ad impiegati e manager dalle cinque alle venti ore a settimana per controllarle e rispondere, senza contare che il 20 per cento tratta argomenti e problemi che non riguardano proprio chi le ha ricevute. Da Maranello a New York, da Parigi a Milano, è partita la guerra alla posta selvaggia, alle comunicazioni aziendali inviate a tutti per sicurezza o piaggeria, per lavarsi la coscienza in caso di futuri rimproveri o per superficialità e distrazione. Così, se alla Ferrari, su indicazione del presidente Luca Cordero di Montezemolo, hanno fissato un limite (al quarto destinatario comune da oggi scatta il blocco sul computer), alla Atos, colosso dei sistemi informatici, sono stati ben più drastici e in dodici mesi hanno ottenuto un calo del 20 per cento delle comunicazioni aziendali e puntano dichiaratamente allo zero.
«Se qualcuno mi vuol parlare può chiamarmi o mandarmi un messaggio via chat». Parola di Thierry Breton, amministratore delegato di Atos, ex ad France Telecom nonché ex ministro delle finanze francesi che nell’azienda informatica da un paio di anni ha favorito per le comunicazioni interne una chat oltre ai social
network, consentendo un risparmio di un quinto del tempo. C’è chi come lui punta all’abolizione perenne delle email e chi ha fatto un esperimento. Shayne Hughes, che ha una società di consulenza e coaching per  manager le aziende, una mattina ha annunciato al suo staff il divieto di usare le comunicazioni interne
via web per una settimana. «Si è scatenato il panico: “Non riusciremo a fare nulla, passeremo il tempo interrompendoci ogni due minuti, sarà il caos”, sono state le proteste immediate. La verità è che le email facilitano la comunicazione pigra e superficiale. Troppo spesso scriviamo di corsa, senza pensare a fondo, premiamo il tasto e via, ormai è un tuo problema». Il risultato di una settimana di vuoto, dice la manager, è che il gruppo ha riscoperto le priorità, tutti sono diventati più consapevoli di cosa si voleva dire, di come dirlo e soprattutto a chi. «Perdendo l’illusione che mandando a tutti le email avremmo risolto qualsiasi problema».
Perché inondare il resto dei colleghi di missive che non li riguardano è vera e propria maleducazione, dicono alla Ferrari. «È un’invasione, è burocrazia. Ti senti l’anima in pace perché hai spedito la lettera senza pensare al tempo che fai perdere all’altro che deve leggersi righe su righe prima di capire che quel messaggio non c’entra nulla col suo lavoro ». Alla Rossa preferiscono i rapporti diretti: «Qualcuno qui è terrorizzato dalla novità, ma in realtà noi siamo in tremila, tutti nello stesso posto, un colpo di telefono, quattro passi. Si fa prima e ci si capisce meglio».
Condividono Oltreoceano, dove in un blog tra imprenditori che hanno provato ad abolire le email interne,dopo un iniziale scetticismo dei dipendenti, il risultato è stato chiaro: meno stress per tutti e più produttività. Tra email di lavoro e private gli italiani sono sommersi quotidianamente da 700 milioni di missive, che li raggiungono in oltre 63 milioni di indirizzi, due a testa, uno di lavoro e uno privato. In un perenne “C’è posta per te” difficile da abolire. E passiamo a Marco Zamperini, direttore ricerca e sviluppo della Ntt Data Italia, che ha sottolineato più volte come la posta aziendale sia usata spesso male. «Soprattutto quando si abusa del “Cc”, il campo usato dai furbi, di chi ti manda copie inutili per conoscenza ma almeno può dirti “ti avevo scritto...”. Sarebbe meglio usare i social media o la chat nelle imprese». Poi anche lui deve essersi arreso, sperando nella buona educazione dei colleghi, se sulla segreteria telefonica dice, non si sa quanto ironicamente: «Per contattarmi, mandatemi una mail».

:-)

lunedì 1 luglio 2013

El Pepe: l’Uruguay ed il suo leader povero

Incollo qui il risultato di alcune ricerche fatte (Wikipedia, giornali online, e-zine e tutto il materiale digitale possibile) sul presidente dell'Uruguay, El Pepe. Copre molto gli onori della ribalta in questo momento economico davvero delicato, capiamo assieme perchè.


"Il passato? È come uno zaino. Te lo porti sulle spalle ovunque vai. Ma, mentre cammini, guardi avanti…”. Questo ama ripetere Jose Mujica Cordano, meglio noto come “el Pepe”, da tre anni presidente della Republica Oriental del Uruguay. E non v’è dubbio che in quella mochila Mujica abbia, nei suoi 78 anni di vita, accumulato davvero molte cose. Ricordi pesanti come macigni e cupi come la galera nella quale ha trascorso 14 anni della sua vita, fardelli che, sebbene in grado di piegare ogni schiena, non gli hanno mai impedito di camminare diritto. Guerrigliero, volgare, semplice, trasandato, geniale, sporco, coerente, pericoloso, affidabile, ipocrita, saggio. E proprio così - “un uomo saggio” - lo ha senza riserve definito, solo qualche settimana fa, al termine d’un incontro in Vaticano,
papa Francesco I, nonostante la legge di depenalizzazione dell’aborto da poco approvata dal governo che Mujica presiede. Su un solo aggettivo tutti sembrano però concordare: “povero”.

La fattoria e il Maggiolino
José Mujica Cordano è infatti povero nel più materiale significato del termine.  Perché possiede poche cose. Una piccola chacra (fattoria) nel Rincón del Cerro, alla periferia ovest di Montevideo, dove da anni coltiva crisantemi che vende al mercato. Una vecchia casa campestre con i muri anneriti dall’umidità dove, disdegnando la sontuosa residenza presidenziale di Suarez y Reyes, continua a vivere con la moglie Lucía Topolansky e con l’ormai leggendaria Manuela, la cagnetta a tre zampe che lo segue ovunque. Altri possedimenti: un maggiolino Volkswagen del 1994 ed un vecchio trattore. 
Totale imponibile: a occhio e croce, poco più di 100.000 euro. In qualità di presidente della nazione, “el Pepe” gode, inoltre, d’un appannaggio mensile pari a circa 15.000 euro, il 90 per cento dei quali vengono da lui devoluti a favore d’un programma di edilizia popolare. Ed è proprio quest’ultimo - il “presidente povero” d’un piccolo- grande paese - il Mujica che, con ostentato giubilo, il mondo ha di recente scoperto. Lo ha fatto grazie soprattutto a un discorso che è rapidamente diventato, non solo una sorta di manifesto per i verdi
sostenitori dello “sviluppo sostenibile”, ma anche una sorta di neo-francescano inno alla povertà. Povero, ha detto Mujica a Rio - citando Epicuro e Seneca - non è chi possiede poco, ma chi sente la necessità di molto più di quanto occorra per raggiungere quella cosa semplice e dimenticata che si chiama “felicità”. È per essere felici - non per produrre e consumare cose che non ci servono - che siamo al mondo, ha detto “el Pepe”. E lo ha fatto con la stessa “rivoluzionaria” innocenza del bambino della favola di Andersen.

Ma è davvero tutto qui il “vero” José Mujica Cordano? La risposta la si può trovare, in parte, nella mochila che “el Pepe” si porta addosso e, in parte, nel suo presente presidenziale. Perché all’interno di quello zaino non si intravede altro che un inestricabile coacervo di contraddizioni, una realtà arruffata come la capigliatura del proprietario. C’è, in quella mochila, il Mujica guerrillero, la realtà d’una esperienza di partecipazione alla lotta armata degli anni ’60 e ’70, alla quale el Pepe è arrivato, non attraverso classici sentieri di sinistra, ma partendo dalla realtà blanca , conservatrice, del Partido Nacional. O meglio: del partito della campagna, contrapposto al progressivismo urbano, massone, del Partido Colorado. Mujica si riconosce nella parte più popolare, contadina, dei nazionalisti: quella del presidente Bernardo Berro (l’uomo che abolì la schiavitù) e, soprattutto, del caudillo gaucho Timoteo Aparicio, protagonista, nel 1870, de la revolución de las lanzas, forse l’ultima guerra combattuta e (almeno temporaneamente) vinta usando prevalentemente armi non da fuoco.
Il Mujica Tupamaro nasce qui, illuminato, in lande molto lontane dal marxismo, dalla novità della rivoluzione cubana, ed alimentato da un’infatua - zione militarista che andava ben oltre i dettami del nascente “foquismo” guevariano. E qui nascono, di conseguenza, anche il Mujica combattente e il Mujica “prigioniero di guerra”, arrestato, fuggito, arrestato di nuovo nel 1972, un anno prima del golpe militare, ed in carcere rimasto - per almeno tre anni in condizioni disumane - fino al 1985, anno del ritorno della democrazia. Molti suoi avversari gli rinfacciano d’avere sempre evitato - coprendosi dietro la cortina del generico ripudio della lotta armata - un’analisi vera, approfondita di quegli anni. E lo accusano anche di continuare ad alimentare il mito romantico
d’una guerriglia contrapposta alla dittatura. Al di là di questa disputa storico-politica, un fatto è tuttavia certo. Di quei giorni di violenza e di morte racchiusi nello zaino, Mujica sembra oggi non sentire il peso. O, più esattamente: di quei giorni che, per lui, significarono sofferenze inflitte (non molte) e sofferenze subite (moltissime), sembra non portare alcuna cicatrice. Perché è a tutti gli effetti un uomo senza rancori, senza desideri di vendetta e, persino senza ansie di giustizia.
Il prigioniero ed il combattente
Che altro si trova nella mochila di el Pepe? Una quantità di cose: intuizioni geniali, improvvisazioni, idee lasciate a metà, molte delle quali immancabilmente destinate a far rizzare i capelli in testa ai suoi più entusiasti ammiratori “verdi”. José
Mujica Cordano, presidente della Republica Oriental del Uruguay è infatti davvero - come testimonia il suo discorso di Rio - un poeta del “ritorno alla Madre Terra”. Mujica è un inflessibile, fanatico quasi, assertore della necessità di coltivazioni transgeniche. E la terra, per lui, presidente povero, esiste (e va amata) solo in quanto produttrice di cibo o, comunque, di ricchezza. Una convinzione, questa, che lo ha di recente portato ad ipotizzare la lottizzazione delle spiagge di Cabo Polonio perché (questo disse prima che lo scandalo lo forzasse alla retromarcia) così com’è oggi serve soltanto a unos lagartos (ad alcune lucertole, con ovvio riferimento ai turisti che ivi s’abbronzano). Ed oggi? Cosa ci offre oggi? Rispondere non è facile. L’Uruguay che desidera è “un paese agro-intelligente” capace d’usare le sue risorse naturali per raggiungere la modernità. Ed il socialismo che lui auspica è, in aperto contrasto con Hugo Chávez (un presidente del quale, pure, Mujica ha sempre parlato con ammirazione), un socialismo lontano, ancora bisognoso, per cominciare a realizzarsi, di molte fasi intermedie (“prima di distribuire la ricchezza bisogna crearla” ha detto el Pepe nel suo discorso inaugurale) e sicuramente non il semplice prodotto di “un ampiamento del ruolo e delle dimensioni dello Stato”. Un sogno, insomma, al quale fa da contrappeso la realtà di una politica economica che, sotto la molto ponderata e continuista guida del “comasco” Danilo Astori, non ha subito, in Uruguay, variazioni di sorta rispetto agli anni di Tabaré Vasquez. Chi può dirlo? Forse hanno ragione quanti credono che di José Mujica – già oggi, a due anni dalla fine del suo mandato, più popolare fuori che dentro il paese - non sia destinata a restare, a conti fatti, che quella quasi folcloristica immagine di povertà. Il ricordo d’uno stile di vita, una piccola nota a piè di pagina nei trattati di Storia del secolo XXII. Null’altro che una fotografia sbiadita. Ma, in ogni caso, una bella fotografia. Anzi: una fotografia a suo modo unica e capace, già oggi, d’ispirare un senso acuto di nostalgia. Riuscirà il mondo, in futuro, a trovare un altro Pepe?