martedì 11 novembre 2014

Sallusti, che dire?

E' novembre e Alessandro Sallusti, direttore de "Il Giornale", si scopre fiero nemico del presidente (dimissionario?) Napolitano. “Del resto ci sarà un motivo se Forza Italia si rifiutò – cosa rara – di non votarlo alla sua prima elezione (la seconda non fa testo)”, argomenta nel suo editoriale. Eppure proprio nell’aprile del 2013, all’apparire del secondo mandato di Re Giorgio e della primavera, il direttore fioriva: “Per fortuna il presidente Napolitano ha accettato di tirar fuori l’Italia dal pantano. C’è da ringraziare il presidente”. Magnificava il Sallusti primaverile: “Il Quirinale da oggi non è più solo l’arbitro, ma è il ruolo operativo politico del Paese (…) E questo ci conforta”. Il Sallusti novembrino constata: “L’uomo è andato ben oltre i suoi compiti e i limiti stabiliti dalla Costituzione”. In aprile, dovevamo “ringraziare soprattutto il Pdl”. Ora che cadono le foglie “di danni ne ha fatti abbastanza”. Alessandro dovrebbe starsene zitto, per "incoerenza".

mercoledì 29 ottobre 2014

Bonanni, la coerenza

Un segretario generale del secondo sindacato italiano che guadagna 336 mila euro l’anno costituisce una curiosità. Soprattutto se non è chiaro come ha guadagnato quella cifra. Se quel segretario si chiama Raffaele Bonanni, poi, la curiosità si dilata al quadrato. La cifra è superiore al tetto per i grandi manager di Stato (240 mila), pericolosamente vicina a quei grandi dirigenti contro cui Bonanni ha spesso puntato il dito. E spiega più chiaramente il motivo delle sue dimissioni anticipate dalla segreteria della Cisl, piombate all'improvviso nella vita del sindacato cattolico e nel dibattito politico e sindacale. Raffaele Bonanni avrebbe dovuto lasciare la segreteria della Cisl, a cui era stato eletto nel 2006, fra pochi mesi. Eppure il 24 settembre scorso decise di anticipare la sua uscita. Stanchezza politica, si è scritto, oppure indisponibilità a essere additato come il rappresentante di una storia vecchia e conservatrice, quella sindacale, secondo il copione redatto dal premier Matteo Renzi. Ma forse, anche il frutto di una faida interna alla Cisl fatta di lettere anonime, velate minacce, dossier che sono passati nelle mani dei vari dirigenti. Uno di questi dossier è pubblico e racconta una storia beffarda, fatta di un aumento vertiginoso dello stipendio dell’ex segretario proprio a ridosso dell’anno in cui, il 2011, decide di andare in pensione. Beneficiando così a pieno del sistema retributivo ed evitando di finire nelle maglie della imminente riforma Fornero. Il dato sulla pensione di Bonanni è stato già reso noto. L’ex sindacalista, infatti, percepisce dal marzo 2012 la pensione (numero 36026124) dall'importo lordo di 8.593 euro al mese. Al netto delle trattenute si tratta di 5.391,50 euro mensili. Qualcosa che nessun lavoratore medio si può permettere. Nei giorni dell’addio alla segreteria, Bonanni ha giustificato tali importi sempre allo stesso modo: si tratta del frutto di 46 anni di lavoro dipendente, con contributi regolarmente versati, quindi niente di speciale. Inoltre, va ricordato, Bonanni è riuscito a sfuggire, grazie all’anzianità lavorativa, alle modifiche operate nel 1995 dalla riforma Dini che introdusse il sistema contributivo, quello poi esteso a tutti i lavoratori dalla riforma Fornero. Sistema basato sul principio: “Tanti contributi hai versato, tanto sarà l’assegno pensionistico”. Con il sistema retributivo, invece, la pensione si calcolava sulla base della media degli ultimi anni di retribuzione: cinque anni prima della riforma Dini, casistica in cui Bonanni rientra in quanto a quella data aveva superato ampiamente le 18 annualità contributive richieste. Su questo particolare scatta la vicenda di cui stiamo dando conto. Il sindacalista, oggi senza incarichi pubblici, viene eletto segretario generale della Cisl nel 2006. Fino a quella data era segretario confederale e guadagnava meno di 80 mila euro lordi l'anno. 75.223 nel 2003, 77.349 nel 2004 e 79.054 nel 2005. Quando diventa segretario generale, secondo il regolamento interno alla Cisl, il suo stipendio viene incrementato del 30%. Quindi, secondo le regole interne, avrebbe dovuto guadagnare circa 100 mila euro lordi annui. Nel 2006, la Cisl dichiara all’Inps una retribuzione lorda, ai fini contributivi, di 118.186 euro. Un po’ più alta di quella prevista ma non di molto. Le stranezze devono giungere con gli anni seguenti. Nel 2007, infatti, la retribuzione complessiva dichiarata all'Inps è di 171.652 euro lordi annui. Che aumenta ancora nel 2008: 201.681 annui. L’evoluzione è spettacolare, gli incrementi retributivi di Bonanni sono stati del 45% e poi del 17%. Ma la progressione continua: nel 2009, la retribuzione è di 255.579 (+26%), nel 2010 sale “di poco” a 267.436 (+4%) mentre nel 2011 schizza a 336.260 con un aumento del 25%. Siamo alla vigilia della domanda di pensione che, dicono i suoi critici, Bonanni riesce a presentare prima del varo della riforma Fornero. E così, beneficiando di una carriera contributiva davvero ampia – 46 anni – e potendosi basare sulle ultime cinque retribuzioni d’oro riesce a conquistare una cifra nemmeno lontanamente sognata da qualunque altro sindacalista. Prendiamo l’esempio di un “pari grado” di cui molti quotidiani si sono già occupati (Il Fatto e Repubblica almeno che io ricordi), Guglielmo Epifani. La sua pensione è di “soli” 3.400 euro mensili netti anch’essi peraltro frutto di uno scatto improvviso di 800 euro al mese maturato nel 2005 alla vigilia di presentare la domanda pensionistica. Anche qui, gli ultimi cinque anni sono stati utilizzati per alzare la retribuzione senza che il Comitato direttivo della Cgil ne sapesse nulla. E qui c'è il punto che spiega, forse, la fuoriuscita improvvisa dalla Cisl di Bonanni. Chi ha deciso questi scatti, questi aumenti progressivi? La Cisl preferisce non commentare. Quando Bonanni si dimise il sindacato di via Po si limitò a ricordare che negli ultimi anni il segretario aveva percepito degli arretrati, la liquidazione del fondo pensione integrativo (che quindi si aggiunge all’assegno dell'Inps) e altri benefit legati alla sua retribuzione. Questi emolumenti, però, non figurano nella retribuzione ai fini Inps e comunque non avrebbero potuto essere così ampi. Negli ultimi cinque anni, infatti, Bonanni ha percepito un ammontare complessivo di 1.230 mila euro invece dei 600 mila spettanti secondo il regolamento. Il doppio. Sentito dal Fatto Quotidiano , l’ex segretario Cisl ha preferito non rilasciare dichiarazioni (non rispondere equivale a volte ad una risposta). Nella Cisl la discussione proseguirà sotto traccia, forse.

venerdì 1 agosto 2014

E' vero, serve la riforma della giustizia e delle cariche istituzionali

Ora che le telefonate di un premier alla Questura di Milano per far rilasciare una minorenne fermata per furto non sono più reato, una domanda sorge spontanea: che ci fa Fabrizio Corona nel carcere milanese di massima sicurezza di Opera per scontarvi un cumulo di condanne a 13 anni e 8 mesi, poi ridotte con la continuazione a 9 anni? È normale che un quarantenne che non ha mai torto un capello a nessuno marcisca in prigione accanto ai boss mafiosi al 41bis, per giunta col divieto di curarsi e rieducarsi, fino al 50° compleanno? Lo domandiamo al capo dello Stato, così sensibile alle sorti di pregiudicati potenti come il colonnello americano Joseph Romano, condannato a 7 anni per un reato molto più grave di tutti quelli commessi da Corona: il sequestro di Abu Omar, deportato dalla base Nato di Aviano a quella di Ramstein e di lì tradotto al Cairo per essere a lungo torturato. Latitante negli Usa, senz'aver mai scontato né rischiato un minuto di galera, Romano fu graziato nel 2013 su richiesta di Obama da Napolitano in barba alle regole dettate dalla Consulta nel 2006. Queste: la grazia dev’essere un atto “eccezionale” ispirato a una “ratio umanitaria ed equitativa” volta ad “attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale”, cioè per “attuare i valori costituzionali... garantendo soprattutto il ‘senso di umanità’ cui devono ispirarsi tutte le pene” e “il profilo di ‘rieducazione’ proprio della pena”. (come wikipedia insegna) Parole che paiono cucite addosso a Corona. Il suo spropositato cumulo di pene è frutto di una serie di condanne: bancarotta (una fattura falsa, 3 anni 8 mesi), possesso di 1500 euro di banconote false (1 anno 6 mesi), corruzione di un agente penitenziario per farsi qualche selfie in cella (1 anno 2 mesi), tentata estorsione “fotografica” al calciatore interista Adriano (1 anno 5 mesi), estorsione “fotografica” allo juventino Trezeguet (5 anni), e alcune minori. Nessuno sostiene, per carità, che sia uno stinco di santo. Ma neppure un demonio che meriti tutti quegli anni di galera: ne ha già scontati quasi due fra custodia cautelare ed espiazione pena. Ed è bene che resti al fresco un altro po’ a meditare sui suoi errori, come ha iniziato a fare fondando un giornale per i detenuti, Liberamente , e rivedendo criticamente il suo passato nel libro Mea culpa scritto dietro le sbarre. E a curare la sua evidente patologia di superomismo: ma questo gli è impedito dalla condanna “ostativa” subìta al processo Trezeguet. I fatti, peraltro piuttosto diffusi nel mondo dei paparazzi, sono questi: un fotografo della sua agenzia immortala il calciatore in compagnia di una ragazza che non è sua moglie; Corona gli propone di ritirare il servizio dal mercato in cambio di denaro; Trezeguet ci pensa su un paio di giorni, poi sgancia 25mila euro. Tecnicamente è un’estorsione, poiché i giudici – dopo un proscioglimento del gip annullato in Cassazione – ritengono che fotografare un uomo pubblico per strada integri una violazione della privacy (tesi controversa e ribaltata in altri processi a Corona, tipo nel caso Totti). Reato per giunta aggravato dalla presenza di un terzo: l’autista. Così, per un delitto scritto pensando al mafioso che chiede il pizzo scortato dal killer, Corona si becca 3 anni 4 mesi in tribunale, poi divenuti 5 in Appello (niente più attenuanti generiche). E scatta il reato “ostativo”: niente sconti per la liberazione anticipata (75 giorni a semestre per regolare condotta), niente percorso rieducativo e terapeutico, almeno 5 anni in cella di sicurezza. Un pesce rosso in uno stagno di squali. Proprio a questo serve, secondo la Consulta, la grazia: non a ribaltare le sentenze, ma ad “attenuare l’applicazione della legge penale” quando “confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale... garantendo il senso di umanità” e il fine “di rieducazione della pena”. Una grazia almeno parziale, che rimuova il macigno dei 5 anni “ostativi”, sarebbe il minimo di “umanità” per ridare speranza a un ragazzo che ne ha combinate di tutti i colori, ma senza mai far male a nessuno. Forse un pò a se stesso.

mercoledì 28 maggio 2014

Sposa l’uomo che ama, lapidata dai parenti

Incollo qui un articolo di Alix Van Buren, di oggi.

«È un delitto d’onore», s’impettisce davanti ai poliziotti di Lahore il padre di Farzana, se “padre” si può dire di un maschio-padrone che ha appena spronato una torma di venti famigliari — fratelli, zii, cugini — a massacrare la figlia incinta a colpi di mattoni e bastone, le mani e la tunica ancora bagnati del sangue zampillato dalla testa di Farzana. Lei, 25 anni, è ormai un fagotto adagiato per terra, coperto da un telo infiorato di fronte al tribunale della capitale del Punjab, in Pakistan. Accanto al braccio, resta il sandaletto rosa, lindo e lezioso, scalzato nella fuga dagli aguzzini. Col suo viso, ancora sorprendentemente bello — reso statuario dalla morte — aveva sfidato il patriarca: per amore. Farzana Parveen era arrivata lì, a Lahore, ieri mattina, per testimoniare davanti ai giudici che «sì, era vero»: lei aveva sposato Iqbal, vent’anni più di lei, proprio per amore.
 
E «no», s’era intestardita, «non era vero» che Iqbal l’avesse rapita e costretta alle nozze, come invece calunniava il genitore, Mohammad Azeem, rivoltosi alla giustizia. In più, lei sapeva d’essere incinta: era il primo figlio a tre mesi di gravidanza, dopo anni di fidanzamento. Lui vedovo, lei si prendeva cura anche dei cinque figli di Iqbal. Nello spiazzo davanti alla Corte, i due non hanno avuto il tempo di salire i primi gradini. È piombato il branco: il fratello l’ha strattonata, per portarla via. Lei, sulle prime, è sgattaiolata. Lui le ha sparato un colpo di fucile, mancandola. Finché lei nella corsa è inciampata. Ha perso il sandaletto rosa. I testimoni raccontano che su di lei è caduto un diluvio di mattoni recuperati da un cantiere lì di fianco. Raggiunta, i suoi l’hanno finita a bastonate. Fuggiti, sono ricercati dalla polizia. Soltanto il padre, Azeem, s’è consegnato, tronfio: «Aveva insultato la famiglia, s’era sposata senza il nostro consenso, non ho rammarico», l’investigatore Mujahid ripete le parole di Azeem. È il refrain di una trama classica, tanto sanguinaria quanto ripetitiva, in un Paese come il Pakistan (e non è l’unico) dove 869 donne sono state assassinate lo scorso anno per lo stesso motivo: delitto d’onore. Eppure l’orrore di una lapidazione in una piazza centrale sciocca persino i più accostumati allo studio della violenza. «Non s’era mai visto il caso di una donna lapidata, per di più di fronte a un tribunale», dice Zia Awan, rispettato avvocato e militante dei diritti umani. La polizia promette di arrestare i responsabili. Ma Zia, come le donne della famiglia di Farzana, non s’illudono: sanno che le sentenze sono miti; a volte, si risolvono in assoluzioni. L’ultima immagine di Farzan è quel fagotto infiorato, caricato su un’ambulanza, e di Iqbal, la testa stretta fra le mani. L’ultimo affronto: un’autopsia, per sapere quel che tutti hanno visto. E che nessuno ha fermato.

I commenti,silenti  o no, al solito, li lascio ai lettori.

venerdì 23 maggio 2014

il gatto eroe



Eravamo abituati ad ascoltare storie di cani eroi, che hanno salvato bambini, adulti, altri animali; che hanno fatto scoprire assassini e ritrovato persone scomparse. Ma nessuno finora aveva mai parlato di un gatto eroe. Il primomicio che entra nella storia come un coraggioso combattente è in realtà una gatta, di nome Tara, che ha tirato fuori gli artigli come una piccola tigre per allontanare un cane che stava aggredendo il suo padroncino Jeremy di soli quattro anni. Grazie all’intervento di Tara il bimbo è salvo. E ora anche i più diffidenti, che hanno sempre ritenuto il gatto un animale egoista, legato più alla casa che ai padroni si devono ricredere. Che sarà mai se il micio non fa le feste a comando? Chi possiede un gatto sa bene che «non è facile conquistare la sua amicizia; ve la concederà se mostrerete di meritarne l’onore,ma non sarà mai il vostro schiavo », scriveva Théophile Gautier. Vero è che il gatto non vi scodinzolerà mai dietro come un cane.Non porta indietro la pallina, non vi segue per tutta la casa con le pantofole o il giornale tra i denti. Lui ha una personalità. Si avvicina e si lascia accarezzare quando ne ha voglia. E' un pò più egoista-solitario del canide. Poi si allontana e va per i fatti suoi. È uno spirito indipendente. Dorme, sonnecchia, osserva.Ma non ubbidisce. Per un gatto l’idea di essere proprietà di qualcun altro è ridicola (Jeffrey Moussaieff Masson, in La vita emotiva dei gatti). Non tollera le punizioni e fa finta di non capirle. I gatti, animali di altissima intelligenza, non hanno mai completamente superato il complesso di superiorità dovuto al fatto che, nell’antico Egitto, erano adorati come dei. E quanto emotivamente siano coinvolti nel rapporto con gli esseriumani, e quindi con i loro amici-padroni, resta un mistero. Non stupisce quindi la curiosità che ha scatenato il video (su YouTube ha realizzato ben 21milioni di visualizzazioni) della gatta Tara che salva la vita al suo padrone. Si vede una scena fulminea: un cane randagio si avvicina di soppiatto a un bambino in bicicletta, gli azzanna un braccio e cerca di trascinarlo via. Le telecamere di sicurezza piazzate intorno alla villetta di Bakesville, in California, riprendono quello che sembra destinato a diventare un dramma, quando ecco un autentico colpo di scena: il gatto di casa-un soriano per la verità piuttosto ben piazzato- sbuca dal nulla e come una furia si lancia sull’aggressore. Il cane, grazie anche all’effetto sorpresa, molla il braccio del bambino e si dà a una fuga precipitosa, inseguito dal gatto che dopo alcuni metri, compresa l’impari e rischiosa sfida in cui si è lanciato, corre a nascondersi sotto un’auto. Per Jeremy - appena quattro anni - tanta paura e una brutta ferita. Immagini che hanno fanno il giro del mondo commuovendo tutti. Intanto Jeremy è contentissimo di poter urlare a tutti che la sua amica pelosa «è un’eroina,mi ha salvato».I genitori del bimbo raccontano che Tara è entrata nella loro vita all’improvviso: «Cinque anni fa la gatta ci ha seguiti a casa da un parco in cui stavamo passeggiando e da lì in poi non se ne è più andata. E quando è nato Jeremy è sempre stata vicina a lui, anche quando dormiva». Tara è ormai una star, ha un sito (taratheherocat.com) e piovono gli inviti.Ha già partecipato come ospite d’onore alla partita di baseball tra i Bakersfield e i Jethawks Lancaster, in California. E ha effettuato il primo lancio, anche se non si capisce bene come, ma tutto è possibile per la “gatta ninja” così è stata soprannominata sul web. Ad accoglierla insieme al piccolo Jeremy, con i genitori Roger e Erica Triantafilo, un lungo applauso dagli spalti e un'iniziativa benefica: chi ha portato un giocattolo usato o del cibo per animali da donare ai rifugi per cani ha ricevuto uno sconto del 50% sul prezzo del biglietto della partita.

mercoledì 14 maggio 2014

Infobesity

«INFOBESITY»: obesità da troppa informazione. Obesità mentale, s’intende. Il neologismo viene lanciato da uno studio sulla crescita esponenziale della nostra “dieta quotidiana” di informazioni. Notizie, input, impressioni, opinioni, messaggi personali. È una materia grezza che invade la nostra attenzione, usando le tecnologie digitali, e le cifre sono da capogiro. Negli ultimi sette anni, quelli che forse separano la “prima rivoluzione digitale” dalla nuova Rete 2.0, le email inviate quotidianamente sono esplose da 31 miliardi a 183 miliardi. Erano già tante nel 2007, certo, ma nel 2013 si erano sestuplicate. E qualcuno deve pur leggerle. I video caricati su YouTube erano 11.500 ore al giorno sette anni fa. Ora invece, ogni giorno che passa YouTube accoglie 144.000 ore di filmati aggiuntivi. I tweet nel 2007 erano ancora agli albori: 5.000 “cinguettii” al giorno. Oggi sono oltre 500 milioni al giorno. Il volume di traffico globale che transita su Internet nel 2002 era di 8,6 milioni di gigabyte al giorno, oggi siamo a due miliardi di gigabyte quotidiani. I dati sono di Internet Live Stats, The Radicati Group, You- Tube Trends, Cisco, li ordina insieme un’analisi di Thomson Reuters. L’allarme viene dal fatto che «nell’informazione come nel cibo, l’eccesso può avere conseguenze drammatiche». La diagnosi parla di una «epidemia mondiale di infobesità, una situazione in cui troppa informazione può portare alla paralisi, alla distrazione, all’eccesso di fiducia, alle decisioni sbagliate». C’è un esempio concreto, ai massimi livelli. Non riguarda un singolo essere umano con le sue imperfezioni, ma una delle più potenti aziende tecnologiche della Silicon Valley. Google, nientemeno, che con Flu.Trends aveva lanciato uno strumento analitico per setacciare tutti i social media e raccogliervi immense quantità d’informazioni a fini sanitari. La scommessa di Google: attraverso la potenza di Big Data e la sofisticazione dei software per interpretare quelle notizie, avremmo sconfitto l’influenza. O quantomeno avremmo raggiunto una perfetta capacità previsionale, per indicare in anticipo sviluppi e diffusioni delle prossime epidemie influenzali. Il bilancio? Un disastro. La massima autorità sanitaria Usa, il Centers for Disease Control and Prevention, insieme con una squadra di scienziati diretta da David Lazer, hanno scoperto che il Flu.Trends di Google ha preso delle cantonate micidiali, sovrastimando i casi di influenza in modo sistematico, e ha sbagliato per anni senza correggersi. Nel saggio pubblicato sulla rivista Science, Lazer indica questo come un esempio macroscopico di hybris legata a Big Data. Decisioni sbagliate, come conseguenza dell’incapacità di selezionare, interpretare, un sovraccarico d’informazione. Se di Infobesity si è ammalata perfino Google, figurarsi quanto siamo vulnerabili noi. Tra gli scienziati che se ne occupano, Clay Johnson (autore di The Information Diet) è stato uno dei primi ad analizzare l’informazione alla stregua di un «consumo di alimenti»: se ne possono ingerire in eccesso, e stare molto male. Esiste secondo Johnson un «preciso e osservabile modo di funzionamento neuronale» che coincide con il sovra-consumo d’informazione. Sotto accusa, insieme con «l’invasività dell’informazione », c’è la nuova norma sociale «che rende accettabili le continue interruzioni della nostra attenzione». Mark Pearrow, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, ha creato un sito che si chiama Infobesity.com. Il suo scopo è «trovare la giusta dieta per l’informazione». Per questo vuole capire anche «quali antichi meccanismi sono in funzione nelle nostre menti e nei nostri corpi, che ci rendono suscettibili di sviluppare una dipendenza». Il paragone alimentare calza alla perfezione. Gli esseri umani hanno abitato questo pianeta per decine di migliaia di anni in condizioni di penuria di cibo, esposti al rischio di carestie; quando il cibo è diventato abbondante, non eravamo geneticamente programmati per resistere alla tentazione. Qualcosa di simile ci sta accadendo con l’informazione nell’èra della sua abbondanza digitale. Infobesity è un neologismo che ha avuto illustri predecessori. Negli anni Settanta Alvin Toffler cominciò a parlare di «information overload», sovraccarico. In seguito arrivarono termini come «information glut» (intasamento) e «data smog». Alla nascita della posta elettronica, nel lontano 1997 un’indagine fra i manager delle maggiori aziende Usa (Fortune 1000) dimostrò che il 50% di loro veniva «distratto sei volte all’ora dall’arrivo di email». Un problema minimo, trascurabile, rispetto a quel che accade oggi con le riunioni aziendali dove tutti hanno lo sgaurdo incollato sul display dello smartphone. Nicholas Carr, che ha diretto la Harvard Business Review ed è autore di The Shallows — What The Internet Is Doing To Our Brains, spiega che le email e altri messaggi digitali sfruttano un nostro istinto primordiale che spinge alla ricerca di nuove informazioni. Ma perfino Eric Schmidt, chief executive di Google, ammette che il bombardamento incessante di nuovi dati può avere un impatto negativo sul nostro pensiero, ostacolare le riflessioni più profonde, la comprensione, l’apprendimento, la memorizzazione. Insieme con l’allarme, cominciano a elaborarsi delle strategie di resistenza. L’indagine Thomson Reuters, rivolta alla grandi aziende americane, indica alcune autodifese. Una di queste chiama in causa ancora una volta la tecnologia: si elaborano software sempre più avanzati per «scremare, filtrare e selezionare » la massa bruta e gigantesca di notizie personali o commerciali depositate dagli utenti nei social media. Chiediamo a un software di «distinguere» ciò che conta dall’effimero. Le intelligent alerts sono il passo successivo: ci facciamo stimolare solo quando appaiono nella nebulosa delle informazioni grezze quei temi che noi abbiamo pre-segnalato perché di nostro interesse. Un terzo filone di ricerca riguarda le “ricerche intuitive”, basate su software che imitino il pensiero e il linguaggio umano. Apple con Siri (il cosiddetto “assistente personale” che ci parla dall’iPhone) è uno degli esempi di questa ricerca di un aiuto tecnologico che possa guidarci dentro un universo di conoscenze troppo vasto per noi. Infine c’è una tendenza che non ha nulla a che vedere con le tecnologie: è l’emergere di un potente “agnosticismo dei dati”. L’indagine Thomson Reuters lo indica come un trend in crescita tra quei dirigenti che vogliono «combattere l’infobesità», riprendendosi il controllo delle fonti, della qualità dell’informazione, dell’attendibilità. Per sostenere questa rivolta contro la bulimìa dei dati, sono di aiuto anche i corsi di mindfulness (letteralmente: la qualità di una mente completa, di un’attenzione piena), tecniche di meditazione e concentrazione che mutuano dallo yoga e da analoghe discipline buddiste. Sally Boyle, che dirige le risorse umane per Goldman Sachs, è certa che «fra qualche anno questi esercizi di meditazione ci sembreranno normali, essenziali e diffusi quanto le sedute in palestra ». Non ci resta che riflettere su questi dati ASSOLUTAMENTE ALLARMANTI.

martedì 13 maggio 2014

Lo Squalo, manovra da "soli" 26 miliardi


  1. Rispondere a un’esigenza industriale di consolidamento del business in scala europea.
  2. Dare un segnale concreto ai gruppi telefonici che si sono già attrezzati o lo stanno per fare sul fronte dell’integrazione dell’offerta multimediale.
  3. Senza trascurare lo spirito di rivalsa nei confronti della politica e dell’opinione pubblica anglosassone che un paio d’anni fa bocciò la sua scalata a BSkyB.

Sono queste le leve che hanno spinto Rupert Murdoch, conosciuto sul web come The Shark(Lo Squalo) a impostare il progetto d’integrazione delle tre televisioni a pagamento europee (Inghilterra, Italia e Germania). Il progetto, anticipato nel fine settimana dal Financial Times e dall’agenzia Bloomberg, ieri è stato confermato dalla quotata BSkyB che dovrebbe rilevare gli altri asset da 21st Century Fox. Un’operazione complessa, articolata, da 9-10 miliardi di sterline e con implicazioni antitrust. Ma che se si concretizzasse darebbe vita a un colosso da 11,4 miliardi di euro di ricavi consolidati, con un bacino di 19 milioni di abbonati e qualcosa come 30 mila dipendenti. Un agglomerato mediatico al quale ieri gli analisti di Credit Suisse hanno assegnato un valore complessivo di 26 miliardi di sterline a fronte di un ebitda aggregato di 2 miliardi di sterline e un debito netto di 6,1 miliardi. Un big al quale nessun altro operatore televisivo nazionale potrebbe far fronte, soprattutto in caso di gara per l’acquisizione dei diritti televisivi, in particolare quelli sportivi (il calcio su tutti). Ed è proprio questa la motivazione principale che spingerebbe Murdoch ad avviare la macchina della triplice integrazione che ha già i suoi effetti in borsa visto che BSkyB ieri ha perso il 2,4% e Sky Deutschland è balzata quasi del 10%. In Inghilterra, infatti, il tycoon australiano deve fare fronte alla guerra mossa da British Telecom che ha comprato i diritti della Premier League e pure in Germania il colosso DT si è mosso alla stessa maniera. Per di più, quella di Murdoch è una vera e propria rivalsa contro quel governo che un paio d’anni fa bloccò la scalata alla pay tv anglosassone scatenando la rivolta dell’opinione pubblica amplificata poi dallo scandalo intercettazioni che portò alla decapitazione della branch locale della ex News Corp. Nello specifico, l’operazione allo studio prevede che BSkyB rilevi il 57% di Sky Deutschland in mano alla 21st Century Fox (la nuova società che controlla gli asset televisioni e multimediali dell’impero Murdoch) e lanci poi un’opa. Questo step costerebbe 3 miliardi. Poi la stessa pay tv inglese acquisirà il controllo totalitario di Sky Italia: valore del deal, 5 miliardi. Questo piano d’integrazione risponderebbe poi anche alla sfida che altri big americani stanno lanciando in Europa proprio al gruppo del tycoon australiano. Liberty Media ha comprato un operatore via cavo olandese (Ziggo) per 7 miliardi di euro e assieme a Discovery Channel (sempre più forte in Italia) sta puntando una fiche da 550 milioni di sterline sull’inglese All3Media, mentre Viacom (proprietaria tra gli altri asset di Mtv) vuole comprare l’emittente Channel5 per 450 milioni di sterline. Mentre in Italia non va trascurato il fatto che Mediaset Premium, assicurandosi per 700 milioni la Champions League 2015-2018, ha dato un forte segnale a Sky che per questo si è alleata con Telecom Italia per vendere pacchetti abbinati: a ore l’annuncio che anche i Mondiali di calcio in Brasile, esclusiva della pay guidata dall’ad Andrea Zappia, finiranno su Tim Vision. E secondo alcuni osservatori questa liaison avrà un impatto indiretto anche sulla prossima asta per il diritti della Serie A. A differenza degli altri paesi continentali, l’operatore tlc italiano non parteciperà forte dell’asse con Sky.
Qualcuno, forse i più anziani, ricorderà che il magnate sembra copiare l’ex Cav. di qualche tempo fa, ma fa le cose in grande.
Accorpare le tv a pagamento nei vari mercati europei era un’idea nata sul finire dello scorso anno in quel di Cologno Monzese. In effetti, il progetto di unificare il business della televisione a pagamento, nel caso di Mediaset, in Italia (dove ha il 100% di Premium) e Spagna (22% di Digital+) era venuto in mente ai manager del Biscione. Ora, Rupert Murdoch vuole replicare il piano (che magari era finito in un cassetto impolverato dell’ufficio di Los Angeles, ma questo non possiamo saperlo), e studia l’ambiziosa integrazione nell’inglese BSkyB (posseduta al 39%) delle partecipazioni in Sky Italia (100%) e Sky Deutschland (56%). Un deal molto più complesso di quello pensato da Mediaset e in mercati più rilevanti come pubblico target. E soprattutto con una maggiore presa sugli asset visto che nella piattaforma anglosassone la famiglia domina con la minoranza. Senza trascurare poi un altro elemento: il piano del Biscione non contempla per ora il ruolo dominante che avrà nel prossimo futuro in Digital+il big delle tlc spagnole Telefonica. Che partendo dalla partecipazione del 22% ha fatto un’offerta (irrinunciabile) alla pericolante Prisa per la maggioranza (il 56%). Salendo al 78% ne avràdi fatto il controllo e lavorerà all’integrazione delle piattaforme per portare i contenuti televisivi in tutte le case iberiche. E in quest’ottica, Mediaset dovrà giocare in difesa, sperando di strappare una presenza più ampia in cda, passando magari dall’aumento dell’attuale quota (22%) tramite un accordo strategico con il gruppo presieduto da Cesare Alierta. Ma la sfida continentale tra Murdoch e Berlusconi continua anche sui diritti tv. Al magnate australiano la Spagna è sempre piaciuta. Ex Cavaliere mezzo avvisato...

martedì 29 aprile 2014

Prezzemolino

Dunque sabato sera i telespettatori di Amici saranno privati dell’imprescindibile presenza di Matteo Renzi accanto a Maria, a causa di una legge odiosamente illiberale: la par condicio che proibisce le ospitate di politici nei programmi non giornalistici in campagna elettorale. Gli italiani dovranno dunque attendere fine maggio per sapere che faccia ha il presidente del Consiglio, ingiustamente oscurato da tutte le tv, eccezion fatta per i programmi del mattino, del pomeriggio, della sera e della notte. A meno che non accolga l’invito di Barbara D’Urso a Domenica Live che – lo si è scoperto dopo il monologo del Cainano di Arcore – è nientemeno che un “programma giornalistico”. Il capo del governo è così pieno di sé da voler occupare ogni teleinterstizio diurno e notturno: verrebbe da domandargli perché se ne infischi così ostentatamente di una legge nata per riportare un minimo di decenza nella patria del conflitto d’interessi, al punto di farsi dare una lezione di par condicio addirittura da Mediaset. La risposta, purtroppo, è nota: vent’anni di berlusconismo hanno coperto e giustificato i conflitti d’interessi del centrosinistra, trincerato dietro l’alibi del “lui ce l’ha più grosso di noi”. Chi parla più della mostruosità di un leader politico proprietario di tre reti televisive che da vent’anni si fa intervistare (si fa per dire) dai suoi impiegati? Anziché sciogliere quel nodo, il centrosinistra si è preso la rivincita controllando pezzi di Rai e di giornali, che usano i medesimi riguardi riservati a Berlusconi dai suoi impiegati, senza disdegnare qualche ospitata a Mediaset per dimostrarne lo squisito pluralismo. Quando Renzi dice che il patto con B. riguarda “solo” le riforme (hai detto niente), gli sfugge che la scelta di un simile partner costituente gl’impedisce di polemizzare con le mostruosità che escono dalla sua bocca (per dire qualcosa sulla dichiarazione di guerra alla Germania, ha dovuto equipararla alla “frase inaccettabile di Grillo sulla Shoah”, che però non esiste: Grillo non ha detto nulla sulla Shoah; ha parafrasato molto inopportunamente un brano di Primo Levi, con un assurdo fotomontaggio sulla P2 e Auschwitz). E di fare qualcosa contro il conflitto d’interessi, che infatti resta tabù. Più i giorni passano, più il leader “nuovo” somiglia a quelli che doveva rottamare: chiacchiere tante, fatti pochi e transumanze da una tv all’altra per “fare il simpatico”. La differenza è il giubbotto fico(che gli calza pure male IMHO) al posto della grisaglia. Appena entrato a Palazzo Chigi, oltre ai virus della chiacchierite e dell’annuncite, Renzi ha contratto pure la prezzemolite(è ovunque). Ieri è apparso in tv con un pallone e poi con una banana in mano. Intanto la Boschi, sua "portavoce", ci ragguagliava su Vanity Fair su altre questioni decisive: se vuole dei figli, e se sì quanti, se ha già trovato l’uomo giusto o se possiamo fare qualcosa per aiutarla nelle ricerche. Un giorno o l’altro magari verrà fuori un politico serio, che si fa eleggere e va al governo per governare e parla solo quando ha qualcosa da dire: non per promettere ciò che farà, ma per comunicare ciò che ha fatto. E non lo noterà nessuno. Siamo italiani, in fin dei conti.

martedì 8 aprile 2014

Renatone

Oggi parliamo del renatone nazionale(è in minuscolo per aiutare il lettore ad indovinare il personaggio).
Renato Zero ? No no... 
Renato Carosone ed il suo "Tu Vuò Fa' L'Americano" sarà l'articolo del giorno ? Io direi di no, siamo lontani.
Renato Pozzetto ? Gran comico, ma vi ho detto che ci stiamo allontanando dalla trebisonda, anche se in quanto a comicità, del nostro Signore X se ne potrebbe discutere.
Vabbè dai, iniziamo l'articolo. 

È un gioco delle parti ormai collaudato nel tempo, dove i ruoli sono codificati così come il peso specifico interno a un partito complesso come Forza Italia. E dove, se si guardano le cose dall’esterno, uno come Renato Brunetta (eccolo qua in nostro eroe, 143cm di aggressività ahimè veneziana) dovrebbe pesare tanto agli occhi dell’ex Cavaliere e, invece, non è nelle sue grazie. Eppure, per suo conto s'impegna quotidianamente a cannoneggiare la Rai, a scrivere il Mattinale che raccoglie il verbo e detta la linea alle truppe e, in ultimo, guida saldamente il gruppo alla Camera da dove lancia ultimatum laceranti su cui, poi, i “colonnelli” costruiscono un asse di trattativa. Un po’ come è successo ieri: parte Brunetta, sfodera la spada contro l’incantevole ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi, sull’approvazione dell'Italicum al Senato, quindi passa la palla all’interno, dove c’è un Verdini già pronto a raccogliere la telefonata della medesima Boschi per capire fino a che punto si può alzare il tiro per non far dimenticare agli elettori che senza Berlusconi non ci saranno mai le “grandi riforme”.
Giornata Nazionale dell’Innovazione 2011
Poi, però, Renzi smonta tutto, lo stropiccia pubblicamente (“non accettiamo ultimatum, men che meno da Brunetta”) e lui, come da tradizione, s’adonta e strepita: “Finirai come le bolle di sapone!!!”. Il copione è sempre questo, la solita storia di ordinaria stizzosità brunettiana, si direbbe, che però tanta parte ha nella strategia mediatica berlusconiana. Per dire: secondo Alessandra Ghisleri, sondaggista della real casa di Arcore, nell’ultimo periodo, uno dei più duri per Forza Italia, in picchiata continua, la cattiveria e l’invettiva brunettiana sono stati fondamentali, salvando il Cavaliere dall’oblio. Brunetta serve perché imperversa. Per ordine diretto di Silvio. La sua determinazione a non lasciare terreno all’avversario lo ha reso un soldato indispensabile della truppa di Silvio. Un episodio che la dice lunga sull’uomo: in aula alla Camera, la presidente Laura Boldrini, annunciandone l’intervento, disse: “Ha la parola il deputato Brunetta”. “Grazie deputata Boldrini – replicò lui, piccato perché non aveva ricordato che era capogruppo –. Lei non mi chiama presidente e io non la chiamo presidente”. È fatto così. E per questo piace ma non al punto da poter essere paragonato a uno Scajola o a un Dell’Utri. E neppure a Verdini. Pesa, insomma, ma non troppo. Conta, certo, ma la rissosità del carattere non lo aiuta. “Renato è Renato”, sostengono con disincanto a San Lorenzo in Lucina, per dire che non sempre la infila giusta, vuoi per eccesso di zelo, vuoi per quella vanità. Per dire: cosa abbia spinto il Cav, a inizio legislatura, a sceglierlo come capogruppo è mistero gaudioso. Dopo la rottura con Giulio Tremonti, Brunetta, approfittando di un momento di grazia del Capo, si sistemò in una suite di Palazzo Grazioli, praticamente all’uscio dell’ex premier. E pare che da quel momento in poi gli abbia rotto le scatole in modo tanto assillante da costringere Berlusconi a concedergli la poltrona. Subito dopo, però, il Cav. si ritrovò sul medesimo uscio mezzo partito che dei modi spicci di Brunetta non ne voleva sentir parlare. Quando nel 2008 era ministro della P.A., trattò i suoi sottoposti come fossero una manica di fannulloni e apostrofò i precari come “l’Italia peggiore”. Una scivolata, quest’ultima, che gli costò cara anche alla corte di Berlusconi. Ma Brunetta è uno che incassa. E striscia. Ad majora.

mercoledì 26 marzo 2014

Novartis, a pagamento!

Alcuni giorni fa scrissi della, secondo me, "collusione di parti nel business dei farmaci". Eccoci qua con la seconda, triste, puntata.  Infatti, visto che alla Novartis i soldi non mancano di certo, ieri il colosso del farmaco elvetico ha comprato una pagina intera sui principali quotidiani per fare un’apologia di se stessa dopo aver subito la multa di 180 milioni di euro (ruggito di una mosca, quisquiglie) dell’Antitrust sul presunto cartello con Roche. “Questa nota – si legge – ha lo scopo di chiarire numerose informazioni non corrette” che sono circolate in seguito all’accusa dell’Autorità “di presunte pratiche anti-concorrenziali” per commercializzare il Lucentis , cioè il farmaco più costoso per la cura della maculopatia (1000 euro per iniezione) contro l’analogo a basso costo Avastin (20 euro). Novartis ribadisce che farà ricorso al Tar “allo scopo di difendere la salute dei pazienti e rispettare il rigore applicato dalle autorità sanitarie” cioè Ema e Aifa “nel processo di valutazione e approvazione dei medicinali”. Qualche riga più sotto il colosso sottolinea che i due medicinali sono “diversi tra loro per struttura e caratteristiche biologiche": la molecola del Lucentis “è stata progettata per trattare patologie oculari” e per essere iniettata nell’occhio, mentre Avastin “è stato sviluppato e approvato esclusivamente per la somministrazione mediante infusione endovenosa e per il trattamento di patologie tumorali”. A settembre scorso l’Oms inserisce Avastin nell’elenco dei farmaci indispensabili per la vista. L’Aifa già nel 2007 lo mette “nella lista 648”, quella dei farmaci che possono essere prescritti dal medico sotto la sua responsabilità per la cura di malattie per le quali non sono esplicitamente registrati. Ma nel 2012 lo rimuove. Risultato: una mezza catastrofe. Lievita la spesa a carico del Ssn, crescono le liste d’attesa dei pazienti, molti dei quali fanno la spola in Austria o Slovenia. Nel resto d’Europa infatti Avastin continua a essere prescritto senza problemi. La nota conclude con belle parole: “Novartis è costantemente impegnata a garantire l’accesso alle terapie innovative, efficaci e sicure al più ampio numero di persone assicurando la sostenibilità economica attraverso la collaborazione con medici” e istituzioni. “Peccato che 100 mila pazienti hanno subito ritardi o interrotto la terapia” commenta Matteo Piovella, presidente della Società oftalmologica italiana (intervista reperibile in rete). E che nel 2009 Novartis impugna le delibere di Emilia Romagna e Veneto davanti ai rispettivi Tar in cui si autorizza l’acquisto del farmaco meno costoso per ovvie ragioni di spesa (la causa è passata alla Corte costituzionale che si esprimerà tra maggio e giugno). Intanto il ministro della Salute Beatrice Lorenzin alla trasmissione "Mi manda Raitre" ha giurato di essere pronta a chiedere alle aziende il rimborso dei danni al Fondo sanitario nazionale se i rilievi dell’Antitrust verranno confermati. Vedremo.

martedì 25 marzo 2014

lunedì 24 marzo 2014

per quanto ancora ?

E' celebre la frase del Vico : "Corsi e ricorsi storici" oppure parafrasata "La storia si ripete".
Chi avesse una decina di minuti da impegnare legga questo:

giovedì 6 marzo 2014

Il business dei farmaci

Alcuni avranno seguito il nuovo avvicendamento "farmacologico" italiano: la mega-multa, il ricorso "and so on" come dicono gli inglesi. In breve: l’Autorità Antitrust accusa le due multinazionali del farmaco di aver fatto cartello per dividersi i vantaggi dalla vendita di entrambi i farmaci La Novartis possiede poco più del 33 per cento della Roche. Roche e Novartis, entrambe con sede in Svizzera, hanno respinto le accuse (chi l'avrebbe detto mai?) e hanno annunciato che faranno ricorso contro le sanzioni decise dall’Authority per la concorrenza. “Sono accuse infondate”, hanno detto. Non farò disquisizioni sul fatto ( chi mi conosce sa già che le reputo colpevoli) ma do seguito ad una intervista di una paziente qualunque.

Milano — Sono una testimone diretta dello scandalo Avastin-Lucentis e ho vissuto sulla mia pelle la terribile condizione di dover scegliere tra una cura molto costosa ma, mi avevano detto, più sicura ed efficace e una dai costi decisamente inferiori ma dall’esito incerto. Di mezzo c’era la mia vista, afflitta da una malattia che fino a Pasqua del 2010 non sapevo nemmeno cosa fosse: la maculopatia. Fino ad allora i miei problemi con la vista erano stati soltanto quelli “canonici” di una miopia, per quanto piuttosto elevata. La maculopatia non è una patologia che affligge soltanto in età senile, a me infatti è capitata a 40 anni, anche se sono gli anziani, effettivamente, i più colpiti (uno su tre dopo i 75 anni). Nel mio caso si è trattato di una maculopatia del tipo più aggressivo, “umida” in gergo medico, dovuta a una degenerazione miopica. Vedendo molto bene con l’occhio destro, non mi ero accorta subito di quel che stava accadendo all’occhio sinistro e quando mi decisi ad andare al Pronto soccorso Oftalmologico dell’Ospedale Fatebenefratelli, vedevo già un solo decimo, praticamente buio fitto. Mi dissero che era necessario intervenire immediatamente, perché il fattore tempo è fondamentale in questo tipo di maculopatia, nel senso che la malattia corre veloce verso la cecità e anche una settimana può fare la differenza. I medici del Fatebenefratelli mi spiegarono che da una manciata di anni esisteva una cura con un’iniezione intraoculare a base di due farmaci: il Lucentis, specifico per l’occhio e, mi venne detto più efficace e sicuro, e l’Avastin, farmaco nato per curare il tumore al colon, che però era off label, privo cioè dell’autorizzazione del Ministero della salute. La differenza tra i due stava anche nei costi decisamente differenti, 50 volte superiori per il Lucentis. Per operarmi con il Lucentis in una struttura privata avrei dovuto sborsare circa duemila euro. Mi trovai in grave difficoltà nel decidere cosa fare e oltretutto dovevo fare presto. Avevo già perso troppo tempo prezioso e non potevo più aspettare. Andai a chiedere un altro parere a un medico del Punto Raf, struttura del San Raffaele di Milano, dove nel 2002 mi ero operata con il laser per togliere la miopia. Lì un medico, a cui devo oggi il recupero della vista, mi disse che Avastin e Lucentis erano praticamente equivalenti e che anzi Avastin vantava migliori risultati e riscontri clinici anche perché, inizialmente, per 3-4 anni era stato l’unico ad essere utilizzato per le maculopatie in tutto il mondo. E che oltretutto negli Stati Uniti veniva utilizzato il solo Avastin. Disse anche che mi avrebbe operato due giorni dopo in una clinica di Bergamo, convenzionata col Sistema sanitario nazionale. E così feci. Nel giro di poche settimane avevo recuperato già molta vista e dopo qualche mese il mio occhio sinistro vedeva 8 decimi. A me era bastata una sola iniezione di Avastin e lo stesso fu anche due anni dopo quando la maculopatia attaccò l’occhio destro. Io oltretutto avevo un lavoro e una famiglia alle spalle che potevano sostenermi economicamente. Ma mi sono domandata come facessero gli anziani, i più colpiti da questa malattia invalidante, a sopportare i costi delle iniezioni con il Lucentis, considerato, oltretutto, che nel caso degli anziani quasi sempre sono necessarie più iniezioni, addirittura dieci o più, per sperare di vedere un miglioramento. Negare loro l’Avastin significa condannarli alla cecità, un fatto indegno di un sistema sanitario all’avanguardia come il nostro.

martedì 4 marzo 2014

Il grande equivoco

Dopo gli Oscar per i migliori film, ci vorrebbe un Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici, cialtroni. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce. Questa volta però, con l’Oscar a "La grande bellezza", c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni –Maradona, inteso però come il fantasista del calcio, non del fisco). Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa , vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio Berlusconi, poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’ “avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. “Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica di una associazione locale comunale? In realtà, come scrive Stenio Solinas su "Il Giornale" ieri, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti. Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana. Per non sbagliare, stasera, visionerò "Machete", ed il seguito "Machete Kills".

lunedì 3 marzo 2014

Tonino La Qualunque

Tonino Gentile aveva ragione: “Io sono trasparente”. Tutto nella sua storia era chiaro e lampante: chi è Gentile, che cos’ha fatto a "L’Ora della Calabria", perché Alfano l’ha voluto sottosegretario e perché Renzi non poteva cacciarlo. Il nostro eroe è un ex craxiano poi berlusconiano ora alfaniano che controlla pacchetti di voti con i soliti metodi e ha sistemato l’intera famiglia nei posti pubblici che contano: il fratello Pino è assessore regionale ai Lavori pubblici; il fratello Raffaele è segretario della Uil; il fratello Claudio è alla Camera di commercio; il figlio Andrea è revisore dell’aeroporto di Lamezia e superconsulente dell’Asl (ora indagato per truffa, falso, abuso e associazione a delinquere: la notizia che non doveva uscire); la figlia Katya era vicesindaca di Cosenza, cacciata per una struttura affidata all’ex marito; la figlia Lory è stata assunta senza bando alla Fincalabra dallo stampatore che poi non ha stampato il giornale. Per tacere di nipoti e cugini, tutti piazzati fra l’Asl, la Camera di commercio e Sviluppo Italia. Al confronto Cetto La Qualunque è un dilettante.
...
Il lettore mi scusera': non ce la faccio a continuare. Troppo lo sdegno.

Gioventù bevuta

Mi vedo costretto ad approfondire il mio precedente articolo sulla NekNomination di qualche giorno fa. Sperando che chi deve capire (i "due piccolini" che conosco io), capisca. :-) Cercando su wikipedia e leggendo i dati O.N.A. (Osservatorio Nazionale Alcol) esco dati allarmanti e sconfortanti purtroppo.
Ed è per questo che ora linko un articolo esaustivo di Maria Novella De Luca:
Buon lettura.

venerdì 28 febbraio 2014

Baby squillo a modello ?

L’idea era venuta leggendo i titoli dei giornali sul caso delle baby–squillo dei Parioli: le due minorenni ricevevano i clienti in un appartamento del facoltoso quartiere romano. E così tre ragazze di Ventimiglia hanno pensato che fosse quello il modo per avere qualche soldo extra. Hanno 14 e 15 anni le tre giovani genovesi che davanti ai loro genitori, quando è stato scoperto tutto, non hanno potuto far altro che piangere. Con l’ingenuità tipica di quell’età, avevano iniziato la loro attività un mese fa. Avevano pubblicato su un sito di incontri il loro annuncio, dove vendevano anche delle foto osè. Dal sito attiravano i clienti per poi incontrarli nelle loro auto parcheggiate nei piazzali o zone isolate dell’entro - terra. Finchè non hanno incontrato un trentenne che si è accorto della giovane età ed è andato in questura a Ventimiglia, a sporgere denuncia. “Quando ho visto che era una bambina, mi si è gelato il sangue e sono scappato”, ha dichiarato l’uomo. Anche lui aveva letto l’annuncio su internet ed era andato all’incontro. “Quella ragazzina non l’ho fatta neppure salire in auto”, ha precisato ai poliziotti. Dalla sua denuncia, sono partite le indagini della procura dei minori di Genova e così cinque persone sono finite nel registro degli indagati per sfruttamento della prostituzione minorile. Uno di questi è stato anche arrestato perché durante una perquisizione nella sua abitazione è stata trovata droga. In questo modo le tre studentesse vendevano il loro corpo per trenta o al massimo cinquanta euro. E quando sono state interrogate davanti ai loro genitori in questura sono scoppiate in lacrime. Hanno spiegato che tutto era iniziato per gioco, volevano imitare le due ragazzine romane dei parioli. Forse erano attratte da quella vita raccontata in tanti articoli: la vita di due minorenni che, postituendosi, potevano permettersi tutto, scarpe, trucchi e abbigliamento firmato. E così anche le ragazze di Genova volevano qualche soldo in più oltre la paghetta settimanale. “In che guaio ci siamo cacciate – hanno affermato, dopo un pianto liberatorio – Abbiano sbagliato, non lo faremo più.” Un’altra brutta storia che fa riflettere anche su quello che può essere il rapporto delle giovani donne con il sesso. Ieri sono stati diffusi alcuni dati dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), che spiegano due problemi fondamentali: l’uso dei contraccettivi ormonali tra le giovani donne che è pari al 16,2 per cento (L’Italia è al pari dell’Iraq), e la crescita dell’uso della pillola del giorno dopo per interrompere gravidanze indesiderate. La ricerca spiega quanto l’Italia sia lontana dagli standard dell’Unione Europea in materia di sesso sicuro. In generale il sesso protetto non è la norma nel  nostro Paese: ancora oggi 6 donne su 10 in età fertile (15-49 anni) non usano alcun metodo contraccettivo, il 15% non ne ha mai fatto uso e il 44% ha smesso di utilizzarlo. Tanto che una gravidanza su 5 è indesiderata. E questo problema riguarda soprattutto le minorenni. Se la pillola contraccettiva è ancora poco usata(metodo che mi vede contrario solo per gli squilibri ormonali che può provocare, ma è il mio opinabilissimo parere), quella cosiddetta del giorno dopo invece ha conosciuto una crescita vertiginosa, pari al 60 per cento in 7 anni, ponendosi tra i primi cinque farmaci venduti in Italia. “L'età del primo rapporto si è molto abbassata – spiega Novella Russo, ginecologa della Clinica Valle Giulia di Roma – in alcuni casi a 12–13 anni. (..) Alcune credono che con il primo rapporto non si possa rimanere incinta, e amano correre il rischio. Le adolescenti spesso ricorrono alla contraccezione d’emergenza in modo premeditato. Non avendo partner fissi ritengono inutile prendere un contraccettivo ormonale in modo fisso”. E così per riuscire a diffondere la cultura della contraccezione la Società italiana di ginecologia e ostetricia ha presentato la nuova campagna d’informazione sulla contraccezione “Love it! Sesso consapevole”, dedicata proprio alle under 25. Speriamo nella diffusione capillare del suo verbo.

giovedì 27 febbraio 2014

Feltri

A Roma si direbbe: “J'è partito 'n'embolo”. Per sdrammatizzare, si potrebbe anche metterla così, commentando ciò che ha detto Vittorio Feltri a Linea Gialla (La7, mercoledì, 21.15), dove Salvo Sottile si impegna molto per risalire sul pendio declinante degli ascolti, e ora sembra che guadagni, ora nuovamente perde e si ritrova “là dove il sol tace”, da cui era partito: (2.30%, lo share per 487.000 spettatori, fonte "ufficio stampa di La7"). Le ha sparate grosse, l’ex direttore de "Il Giornale", perché quando si è in tv bisogna pur dire ciò che si pensa, e se tu sei stato chiamato per recitare il ruolo del giornalista brillante, un po’ sboccato magari – oggi va così – non puoi sottrarti. Per trovare argomenti innocentisti a favore di Raffaele Sollecito, e smascherare l’impianto accusatorio, che a suo dire non tiene, perché non c’è né uno straccio di una prova né un plausibile movente, è arrivato a chiedere a Sollecito se lui, Meredith Kercher, la ragazza assassinata, se la voleva “scopare”. Così, brutalmente. Una domanda retorica, dal suo punto di vista, che già conteneva un’implicita risposta. Perché lui, Raffaele, che aveva un rapporto con una bellissima – Amanda Knox – non avrebbe avuto alcun motivo per corteggiare l’altra, quella uccisa, che peraltro non era nemmeno “eccezionale”. Se non voleva “scoparsela”, quindi, perché mai avrebbe dovuto ucciderla? Questi gli argomenti, e questi i nessi logici che li tengono insieme. Si vedeva, del resto, fin dall’esordio del dibattito, quale sarebbe stata l’aria della serata: Feltri, che era stato presentato da Sottile come l’interprete della linea innocentista, contrapposto a Roberta Bruzzone, criminologa, fautrice della tesi colpevolista, aveva dichiarato, sorridendo, sincera ammirazione per la sua interlocutrice, per la quale nutriva un “debole”. Ma poi da subito si era acceso in improvvisi scoppi d’ira, per denunciare l’insufficienza un po’ di tutto: delle “tute bianche” – i “chimici” della scientifica, che analizzano i reperti –; delle prime indagini sulla scena del delitto, ridicole e incomplete, e ovviamente della magistratura, che lui “adora”, ma solo perché ne ha “terrore”. Pur di dimostrarne l’inaffidabilità, ha avuto l’improntitudine di confessare – con la Bruzzone che gli suggeriva prudenza, per via della prescrizione – che fra i tanti processi subiti, è stato condannato per quelli in cui era innocente, e assolto per gli altri, nei quali era colpevole. Un Vittorio Feltri Show, non gratificato da alti indici di ascolto, che almeno avrebbero regalato alla sua presenza e ai veementi sforzi argomentativi una degna cornice popolare. Tanta foga per nulla. Il fatto è che anche l’anti-processo è un format logorato. Come logorato è l’urlo, che talvolta sembra svolto a comando. E Feltri, se proprio ha piacere di andare in tv e sorridere con galanteria alle sue interlocutrici, deve comprendere che pur non chiedendogli la postura affettata del bon ton o del politically correct, esistono regole nella comunità umana, se non di buona educazione nei confronti dei vivi, di rispetto almeno verso i morti. Anche perché, da morti, non hanno più la possibilità di difendersi, controbattere, urlare. E forse, in certi casi, gli piacerebbe molto lanciarlo, un urlo. Di quelli molto, molto sboccati. Per chi volesse, la puntata è sul tubo, qui.

mercoledì 26 febbraio 2014

Uganda - Italia ?

È partita la caccia alle streghe. Non sono trascorse che poche ore dalla promulgazione della controversa legge che punisce con pene severissime – fino all’ergastolo – i rapporti omosessuali, e già un tabloid scandalistico ugandese, Red Pepper, mette all'indice i “200 top homos” del paese africano. È l’outing della vergogna, non solo perché i gay vedono rivelata la loro condizione sessuale contro la propria volontà ma perché ora, legge alla mano, rischiano di essere esposti a ogni forma di persecuzione e a pesanti conseguenze penali. “Exposed!”, annuncia in prima pagina il quotidiano in tono trionfalistico, quasi avesse realizzato un invidiabile scoop giornalistico. Sotto il titolo, le foto di quattro gay, segnalati come si trattasse di pericolosi criminali. E all’interno, 200 nomi e cognomi, serviti su un vassoio per facilitare il lavoro della polizia del regime di Yoweri Museveni, il satrapo che governa a Kampala da quasi trent’anni. Nella lista compaiono tra gli altri un popolare cantante di hip-hop, un sacerdote cattolico e un conosciuto attivista per i diritti degli omosessuali, Julian Pepe Onziema, che da tempo aveva messo in guardia sui rischi dell’esplosione di un’ondata di violenza anti-gay in vista dell’approvazione della legge repressiva proposta dal governo. Onziema ha ben chiaro in mente un atroce precedente, che fece scandalo in Uganda. Tre anni fa, il 26 gennaio 2011, proprio mentre parlava al telefono con David Kato, come lui militante del movimento Smug (Sexual Minority Uganda), il suo amico venne aggredito in casa e ucciso a colpi di martello.
Pochi giorni prima, Kato aveva vinto in tribunale una causa contro la rivista ormai scomparsa Rolling Stone (niente a che fare con la pubblicazione statunitense) che, proprio come ha fatto ora il tabloid Red Pepper, aveva pubblicato il suo nome insieme a quelli di un altro centinaio di omosessuali. Sotto il macabro titolo “Impiccateli” veniva anche indicato l’indirizzo dei gay ai quali si invitava a dare la caccia. In base al nuovo testo legislativo - che nella bozza iniziale presentata dal deputato del partito di governo National Resistance Movement, David Bahati, prevedeva anche la condanna a morte nei casi di cosiddetta “omosessualità aggravata” - vengono castigate con 14 anni di carcere le relazioni tra persone dello stesso sesso quando ci sia stato un solo rapporto, mentre si prevede la condanna all’ergastolo per relazioni ripetute nel tempo tra adulti consenzienti, o quelle in cui sia coinvolto un minorenne, un disabile o un portatore del virus Hiv. Puniti anche i rapporti sessuali tra donne (“Per il mio presidente, da oggi sono ufficialmente una criminale per il fatto di essere lesbica”, ha dichiarato la fondatrice di Freedom and Roam Uganda, Kasha Jacqueline Nabagesera). La norma considera un delitto anche il non denunciare i casi di omosessualità di cui qualunque cittadino venga a conoscenza. Viene inoltre punita la “propaganda gay” sul modello della legge introdotta di recente in Russia da Vladimir Putin. A nulla è servito il recente avvertimento del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che aveva annunciato che l’approvazione della legge avrebbe “potuto complicare” i rapporti tra i due paesi. Una minaccia confermata in queste ore dal segretario di Stato, John Kerry, che parla di “giorno tragico per l'Uganda” e minaccia di tagliare gli aiuti economici al governo del paese africano. Museveni risponde a muso duro: “Noi non cerchiamo di imporre il nostro punto di vista a nessuno. Ci lascino in pace”.
Serve guardare in casa degli ugandesi per scandalizzarci?  Direi di no, basta ricordare il 2 Novembre 2010, e basterà guardare questo video per capire che in quanto Italiani, siamo imbattibili nelle battaglie "civili". Complimenti a noi.

BitCoin - vero o falso ?

Il Bitcoin, la moneta virtuale più utilizzata al mondo, senza una banca centrale e senza controllori, ha vissuto ieri il suo giorno più nero: è bastata la notizia del crac finanziario di Mt.Gox a scatenare il panico. La più grossa società di cambia valute online del settore – con sede a Tokyo, che dal 2010 permette ai propri utenti di comprare la valuta virtuale in cambio di dollari e viceversa – avrebbe subito un furto di circa 744 mila Bitcoin (al cambio attuale circa 350 milioni di dollari). Le transazioni erano state sospese lo scorso 7 febbraio a causa di “problemi tecnici”, ma da ieri il sito non è più accessibile. Non è ancora chiaro cosa sia avvenuto. Inizialmente si è parlato di un attacco hacker, anche se diverse fonti finanziarie danno per certo che l'ammanco sia stato orchestrato all'interno della stessa società, un lento e costante drenaggio di risorse andato avanti per anni. Il blocco del portale infatti è avvenuto all’indomani delle dimissioni del suo numero uno, Mark Karpeles, dal consiglio della Fondazione che tutela la criptomoneta, la Bitcoin Foundation e a stretto giro dalla diffusione di un comunicato congiunto di altri sei operatori che hanno preso le distanze da Mt.Gox. L'allerta era già scattato nelle scorse settimane con allarmi lanciati dal capo del settore tecnico della fondazione, Gavin Andresen, preoccupato dalle anomalie registrate nella piattaforma che crea la moneta. Il sito giapponese è infatti solo un intermediario che negozia la valuta per conto terzi. La piattaforma funziona son un protocollo simile a quello per scaricare e condividere materiale in rete senza bisogno di snodi centrali. Il software permette la “estrazione” e consiste di “sca - vare” blocchi di moneta virtuale risolvendo problemi crittografici. La rete genera e distribuisce moneta in modo casuale a intervalli regolari durante la giornata. I “minatori” mettono a disposizione la capacità di calcolo del proprio computer, e il tutto avviene senza alcun coinvolgimento attivo del suo proprietario. Il sistema è stato creato nel febbraio 2009 da Satoshi Nakamoto, pseudonimo sotto il quale si celerebbero diversi sviluppatori e si fermerà una volta coniati 21 milioni di pezzi. I siti che accettano i Bitcoin sono in continuo aumento. Chi li vuole acquistare può rivolgersi a società come Mt.gox, finora il più grosso operatore sul mercato. La notizia del suo probabile fallimento ha così scatenato il panico, il primo passo verso il declino di una moneta soggetta ad una forte volatilità dovuta al fatto che i bitcoin in circolazione sono pochi e molto richiesti: a novembre per comprare un bitcoin servivano 1200 dollari. “La valuta americana non è certo la più stabile al mondo. Ma almeno la nostra banca centrale non scompare durante la notte”, scriveva ieri su twitter l’economista Daniel Gros. Il problema - per molti un vantaggio - è proprio l’assenza di un regolatore. Fino a pochi mesi fa il portale giapponese gestiva l’80 per cento del traffico di Bitcoin. In 24 ore il valore della moneta virtuale è sceso di circa il 20 per cento. Ieri, dopo un iniziale tonfo, si è assestato intorno ai 517 dollari. Falsificarla è quasi impossibile, più facile rubarla, come infatti è avvenuto in più occasioni. “Il sistema è giovane, e moltissime piattaforme hanno meccanismi di sicurezza molto amatoriali”, spiega Giulia Aranguena, avvocato esperto di questioni legali legate ai Bitcoin. Il caso più famoso riguarda 2,3 milioni di euro sottratti a 500 risparmiatori cinesi, utenti che non avevano Bitcoin nel loro portafoglio (wallet ) ma li avevano affidati proprio ad una società di cambia valute. E la maggior parte delle autorità di controllo resta a guardare. Solo in Germania il mercato è regolamentato. La speculazione sui diversi prezzi applicati dai gestori dei portali è cresciuta negli ultimi giorni. I numeri non sembrano far pensare all’esplosione di una bolla speculativa. Nel tempo, le società di cambio, e gli investitori in Bitcoin sono aumentate a dismisura, con l’ingresso di alcune grandi banche, come la Goldman Sachs. Il mercato è in espansione, la moneta virtuale è democratica e garantisce il parziale anonimato, ottimo per le organizzazioni criminali. Il 27 gennaio l’amministratore delegato di BitInstant, Charlie Shrem, è stato arrestato con l’accusa di aver riciclato denaro attraverso Silk Road, un sito di commercio online anonimo usato soprattutto per comprare sostanze illegali e chiuso dall’Fbi nell’otto - bre del 2013. Shrem è anche vicepresidente della Bitcoin foundation. Nel giro di qualche mese sono stati costretti a dimettersi due membri della organizzazione californiana. “Questa non è certamente la fine di Bitcoin - spiegano dalla Fondazione - ma la fine di un capitolo, verrà una seconda generazione di imprenditori capaci e responsabili che saprà costruire un sistema più affidabile”. In Italia, se parli di BitCoin, qualcuno del settore, ti consiglia di aggiornare l'antivirus per proteggerti meglio :-(

martedì 25 febbraio 2014

Scommessa

Oggi breve articolo, perchè, purtroppo i contenuti programmatici di Renzi sono a dir poco inadeguati (nella prima stesura di questo articolo avevo scritto "stomachevoli", poi cambiato in "demagogici"). Sarebbe il motivo principe per dar il giusto risalto, e quindi essere esaustivi, ma non ce la faccio. Colpa mia. Gli iniziali sondaggi, infatti, sono già favorevoli; il primo discorso parlamentare di Matteo Renzi ha il profumo del discorso elettorale. I segnali non mancano. Quel suo parlare a braccio e con la mano in tasca, innanzitutto, come un sindaco che si rivolge ai bravi cittadini delle mille Rignano italiche (suo padre fu consigliere di Rignano per l'appunto) non ai poco bendisposti membri del Senato di cui con l’abituale ruvidezza ha già preannunciato la cancellazione. E poi quel vasto programma che non a caso accompagna alle due magiche parole: “sogno” e “coraggio” e che sembra dire: votatemi. Per carità, sentimenti che si addicono al vivace trentottenne che (parole sue) se non avesse fortemente sognato di sedere un giorno a Palazzo Chigi oggi farebbe ancora politica in provincia. Come si può, allora, non plaudire al taglio del 10% del cuneo fiscale, al saldo dei debiti della Pubblica amministrazione o al piano per l’edilizia scolastica? Ma i sogni costano e il Sindaco d’Italia si è ben guardato dallo spiegare dove mai troverà quel centinaio di miliardi, a dir poco, necessari alla bisogna. Lo stesso scaltro stile, sia detto senza offesa, di quando Berlusconi prometteva l’abolizione dell’Ici senza dire con quali soldi, ma poi vinceva le elezioni. Infine, Renzi si è fatto troppi nemici, soprattutto nel Pd e lo sa benissimo. Impensabile che un tipino del genere si faccia rosolare a fuoco lento come un Letta qualsiasi. Resterà in sella il tempo necessario per approvare la nuova legge elettorale e dimostrare la nequizia dei partitini. Più omeno fino al prossimo ottobre. Scommettiamo? P.S: è notizia di ieri che gli ucraini, grazie al parlamento di Kiev, siano riusciti a destitiuire il presidente Yanukovic. Se chiediamo a cento popoli, se preferiscano essere guidati dall'armena/lettone/ucraina Yiulia Tymoshenko o dall'italiano Matteo Renzi chi sceglieranno ? Io credo la prima. RiScommettiamo? 

sabato 22 febbraio 2014

che dire

Una scena mai vista: il premier uscente al momento del passaggio di consegne a Palazzo Chigi non degna di uno sguardo il successore. E già si parla di una clamorosa uscita dal partito. La “staffetta” avvelena l’inizio del nuovo esecutivo che ha già le sue gatte dal pelare: dal ministro dello Sviluppo Guidi beccata lunedì a cena ad Arcore, ai possibili conflitti di interesse del collega del Lavoro Poletti. E non ultima la cacciata della Bonino. E domani la fiducia al Senato. Tanta carne al fuoco. Troppa.  La sincerità non ha casa in politica, lo si sa, come anche la lealtà. Eppure il gesto che ieri ha compiuto Enrico Letta, il ripudio di qualunque segno di affetto verso il presidente del Consiglio, nel brevissimo rito della consegna della campanella a palazzo Chigi, toglie opacità, retropensiero e ipocrisia alle gesta del protagonista. Ritraendo istantaneamente la mano sua da quella di Renzi, che lo guarda per la prima volta con occhi bassi e imbarazzati, e correndo via da una cerimonia che sembra offenderlo, Letta non perde il senso dello Stato (è lì infatti ad adempiere ai suoi doveri) ma non rinuncia a manifestare in pubblico il proprio dolore, la disapprovazione per come gli è stata sottratta la poltrona. Ma la mano che lo sconfitto quasi rifiuta di porgere al vincente è anche un manifesto di cattive intenzioni, annuncia che nulla al giovane, magari talentuoso ma inesperto premier sarà risparmiato, che la vita del suo governo, specialmente nelle aule parlamentari, dovrà superare ostruzioni impreviste, antipatie inattese. Letta se ne va da palazzo Chigi, non dalla vita politica. Le sue relazioni nel mondo che conta sono ampie e resistenti al tempo e alle mode, e la voglia di una rivincita è più che plausibile. E infatti sempre ieri, sul suo profilo twitter, ha cancellato l’incarico di premier riprendendo quello di deputato. “Deputato della Repubblica”, ha scritto. Non più del Pd. Acque agitate proprio nel Pd. Parliamo appunto della prima ondata polemica che coinvolge il partito. Appunto, del Ministro Gudi, e del suo ministero: Lo Sviluppo economico.
Federica Guidi, Ministro dello  Sviluppo
Federica Guidi non è una quota rosa, è una quota azzurra. È l’unico ministro del governo Renzi che anche Silvio Berlusconi avrebbe voluto se a Palazzo Chigi ci fosse stato lui con Forza Italia. A chiarire le simpatie della signora modenese sarebbero bastate le dichiarazioni della titolare dello Sviluppo economico quando era a capo dei giovani di Confindustria, il sorriso mentre Berlusconi umiliava lei e Emma Marcegaglia da un palco: “Prendete atto che sono l’unico uomo e che queste due donne non sono minorenni” (era il 2009). Sull’HuffingtonPost. it Alessandro De Angelis rivela che ancora lunedì sera Federica Guidi era ad Arcore, assieme al padre Guidalberto da cui ha ricevuto un’azienda (la Ducati Energia, dalla cui vicepresidenza il ministro ora si dimette) e le sue entrature confindustriali e politiche. A cena il Cavaliere, scrive De Angelis, non nasconde la sintonia: “Federica, prima o poi questa tessera di Forza Italia dovrai fartela...”. La Guidi è una delle scelte più misteriose di Renzi: non ha esperienza ministeriale, guidare la Confindustria giovani non è un vero lavoro, non richiede particolari competenze, a parte lamentarsi un paio di volte all’anno da Santa Margherita Ligure e da Capri per il fisco e la burocrazia che opprimono le imprese. Quindi perche' dare alla Guidi un ministero come lo Sviluppo, dove ha faticato un supermanager come Corrado Passera e un sindaco esperto come Flavio Zanonato è stato travolto dalla complessità della struttura? Per rassicurare Confindustria, certo, ed evitare che faccia opposizione a Renzi(ma e' solo una mia supposizione) come durante la fase finale dell’esecutivo Letta. Ma anche per rassicurare Silvio Berlusconi su una delle sue due preoccupazioni (una è l’arresto, l’altra le comunicazioni, che dipendono dallo Sviluppo). Non sono più i momenti cruciali del beauty contest che doveva regalare a Rai e Mediaset le frequenze liberate dal passaggio della tv dall’analogico al digitale: tra lungaggini burocratiche e vincoli europei, le frequenze si sono svalutate e sono meno strategiche (ma Mediaset almeno ha evitato l’ingresso di pericolosi concorrenti). Nel dubbio meglio prevenire: ora che Google, per esempio, ha un potere di lobby tale da spingere Renzi a bloccare la apposita tassa voluta da Letta, per Mediaset si annunciano anni complicati. Sta arrivando Netflix, a sconvolgere il mercato della tv a pagamento, Mediaset Premium non ha mai funzionato e ora, dopo aver acquistato l’esclusiva della Champions League, cerca nuovi assetti, magari fusioni. Il ministro sbagliato potrebbe favorire il web a scapito della vecchia tv generalista. Ma Berlusconi non pare doversi preoccupare. Vedremo se come vice alle Comunicazioni la Guidi confermerà Antonio Catricalà, da sempre amico di Gianni Letta, ombra del Cavaliere.
Il clientelismo ha ridotto il BelPaese a cio' che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.

mercoledì 19 febbraio 2014

Giochi a cinque manette

Ve lo ricordate il tanto stimato (dal nostro piccoletto "blu") Putin ? Arrivato in Italia ed accolto come un innovatore. Che a sua volta accoglie il nostro piccoletto in patria da lui, etichettandolo come uno dei suoi più cari amici ? Compagni di bisboccia giornaliera ma soprattutto notturna, il lettone in oro ed ottone regalato, e relegato in villa Grazioli fino a poco tempo fa sul qual lettone la D'Addario, così si vocifera, fece qualche "evoluzione"?! Ecco, «quel» Putin appunto.
Avete presente che da una decina di giorni ci sono le Olimpiadi Invernali a Soci, spot elettorale voluto da Putin ?
Bene.
Succede che le famose Pussy Riot, irriducibili attiviste dell’opposizione, scelgano Soci per filmare il videoclip della loro ultima canzone intitolata ironicamente “Putin ti insegna come amare la madrepatria”. Un’iniziativa sul filo del rasoio. Il rischio minore è di finire come Vladimir Luxuria: arrestata ed espulsa. Quello peggiore, di tornare dentro l’arcipelago gulag dei terribili penitenziari femminili russi. Maria Alyekhina e Nadezhda Tolokonnikova, le leaders del gruppo punk, non hanno paura: hanno passato 22 mesi di duro penitenziario. Sanno che il palcoscenico dei Giochi è sotto  li occhi del mondo intero. Sanno pure che il peggio arriverà quando i Giochi si concluderanno. Avevano promesso che la loro lotta non si sarebbe spenta dopo l’amnistia e la scarcerazione del 23 dicembre. Quale migliore platea, se non quella di Soci? E lì atterrano domenica. Il tempo di scaricare i bagagli, che subito sono fermate e schedate dalla polizia. Chiaro gesto intimidatorio. Le ragazze pigliano alloggio in un albergo a trenta chilometri dalle installazioni dei Giochi. Sono rassicuranti: dicono che non hanno alcuna intenzione di visitare il Parco Olimpico, o fare performances durante le gare. Vogliono solo promuovere quel filmato e cantare. Le autorità  non ci credono. E non le lasciano in pace, alla faccia dello spirito olimpico e del “Codice etico del Cio”, il Comitato Olimpico Internazionale, in cui la prima regola è lapidaria: “La salvaguardia della dignità della persona umana è un’esigenza fondamentale dell’Olimpismo”. Invece, lunedì le Pussy Riot sono di nuovo vessate: 10 ore di interrogatorio, stavolta coi funzionari dell’Fsb, i servizi di sicurezza federali - l’erede del Kgb. eri mattina, terzo atto. La polizia intercetta le cantanti sul lungomare di Soci, a due passi dalla chiesa dell’Arcangelo Michele. La retata colpisce almeno una dozzina di persone, oltre le Pussy Riot.
Come Eugene Feldman, fotografo di Novaja Gazeta (il giornale in cui lavorava Anna Politkovskaja, giornalista assassinata brutalmente, ricordo ai più giovani). O come Anastasja Kirilenko, giornalista di Radio Svoboda (Radio Libertà). Testimoni dell’azione parecchi giornalisti americani, francesi e russi, salvati dall’accredito. Stranamente, la polizia non sequestra i telefonini delle Pussy Riot. Le quali utilizzano in tempo reale Twitter per scandire la cronaca del loro fermo. Il primo tweet è delle 10 e 46, ora locale: “Siamo state arrestate e siamo accusate di furto”, scrive Nadezhda, “stavamo solo passeggiando a Soci”. Alle 11 e 12 arriva la prima immagine della camionetta in cui le Pussy Riot sono state usando “la forza”, con modi “violenti e offensivi”. Una prima versione dell’arresto rimbalza in un dispaccio d’agenzia, il fermo delle Pussy e degli altri rientrerebbe nel quadro di un’indagine per via di un furto avvenuto nel loro albergo. Una seconda versione è meno arzigogolata, le Pussy non avrebbero ottemperato all’ob - bligo della registrazione presso le autorità di polizia entro 24 ore dal loro arrivo a Soci, che riguarda tutti i non residenti. Verso le 2 e mezzo, le Pussy Riot sono rilasciate. Lasciano il commissariato indossando l’abito di scena dei loro concerti, la testa avvolta da una sorta di calzamaglia, che i russi chiamano balaklava . Appena superano i cancelli, gridano in russo: “Danno in mano la torcia olimpica... nelle colonie insegnano a piangere”. In inglese, spiegano: “Si commettono tante violazioni dei diritti umani... è chiaro che non si tratta solo di un evento sportivo, è un evento politico”. Quanto ai padroni dei 5 cerchi tutto ciò sia indigesto lo dimostra Mark Adams, il portavoce del Comitato Olimpico Internazionale: “Speriamo che i Giochi non saranno utilizzati per qualsiasi manifestazione”, ha dichiarato ieri, commentando il caso Luxuria. Ora un certo malumore sta scuotendo le squadre di Canada e Usa e alcune nazioni europee. Non tutti ci stanno a far finta che Soci sia il paradiso dello sport. Anche perché, in russo, la parola Olimpiada si può scomporre: Olimp, gloria. Ad , inferno.

martedì 18 febbraio 2014

Neknomination

Bradley è inglese, ha 20 anni e gioca a rugby. Gira un video che condivide su Facebook in cui fa fuori, una dopo l’altra, come fossero semplici shot, un paio di bottiglie di gin. Dopo la prima bottiglia si sente male, ma va avanti – è questa la sfida. Fa passare qualche istante e ingurgita anche la seconda bottiglia. Pollici in alto: ce l’ha fatta: “Così si beve” esulta nel video. Passano solo pochi giorni e Bradley non c’è più: è morto. Bradley Eames sembra essere la quinta vittima della ‘neknomination’, l’ultima stupida trovata che corre sui social media. Nata in Australia pochi mesi fa, divenuta popolarissima tra gli studenti in Gran Bretagna e Irlanda e forse già in viaggio verso gli Usa, la neknomination (il cui nome fa evidente riferimento al collo della bottiglia di birra o superalcolici) vorrebbe essere solo un gioco di bevute su internet, ma è diventato qualcos’altro. Funziona così: in un video che viene condiviso su Facebook o YouTube, qualcuno beve una spropositata quantità di alcol e poi nomina tre amici, che devono ripetere l’impresa entro 24 ore, pena essere presi in giro se non lo fanno.
Ragazzo sfidato in Neknomination
Divenuta virale grazie ai social media, la neknomination è deteriorata in una serie di varianti che hanno sempre più a che fare con bravate assurde o disgustose, come nel caso di un ragazzo che si fa riprendere mentre mette nel frullatore un topo morto che aggiungerà alla sua dose di alcolici, o un altro che, appeso a testa in giù per le gambe sostenuto da due compagni, versa nel water una birra e la beve. Più è al limite, più la sfida sfonda sul web. Quel che è più grave è che il gioco ha ucciso già dei ragazzi, tutti sotto i 30 anni. Prima di Bradley era toccato a un altro ventenne inglese, Isaac Richardson, morto per un micidiale cocktail  di vino, wiskey, vodka e birra assunto nell’ostello dove lavorava, a Woolwich, a sud est di Londra. A Cardiff un’altra vittima, il 29enne Stephen Brook che aveva trangugiato una bottiglia di Vodka in meno di un minuto. All’inizio di febbraio gli irlandesi Jonny Byrne Ross Cummins, rispettivamente di 19 e 22 anni, erano morti in luoghi diversi ma entrambi improvvisamente poche ore dopo la bevuta filmata e condivisa su Facebook. Nonostante gli appelli dei genitori delle vittime a fermare questa follia, Facebook si rifiuta di prendere provvedimenti. Il fenomeno, fanno sapere i dirigenti del social network fondato da Mark Zuckerberg, non viola nessuna regola. Può darsi, ma certo ha un effetto dirompente sul comportamento dei ragazzi. Tra l’altro la neknomination è l’ultima pericolosa tendenza amplificata da internet, ma non certo la prima. Tre anni fa sul web spopolava il ‘planking’, in cui le persone si sdraiano a pancia in giù in luoghi inusuali pericolosi (ponti, precipizi, rotaie di treni ecc) per poi postare foto su Facebook. Due ragazzi australiani 20enni morirono nel 2011, l’uno precipitando dalla ringhiera del balcone di casa, l’altro cadendo da una macchina in movimento. Ma anche nei casi in cui, per fortuna, non ci sono vittime, i social network sembrano rappresentare una cassa di risonanza per chi le sue bravate non può fare a meno di condividerle. Manco a dirlo, TUTTE queste geniali mode le stiamo importando, lemme lemme, in Italia. Come esimersi dal farlo in effetti ?

lunedì 17 febbraio 2014

Capitan Pistone - il video -

Prendendo spunto da questo mio, ho pubblicato, come promessovi il seguente:

Capitan Pistone, 461,1 Mb
(Cliccate sul link qui sopra per scaricarlo)

Una piccola nota, che fara' storcere il naso ai piu': mancano gli ultimi, credo due minuti, "del documentario", in quanto, e chi mastica "satellite" lo sa bene, l'EPG Rai e' disdicevole (voglio usare un eufemismo). In due parole due, l'EPG, Electronic Program Guide, istruisce il registratore quando accendersi e quando spegnersi. Il documentario doveva partire alle 00:05 e terminare alle 01:00. Purtroppo il telegiornale ha sforato il programma all'inizio, la pubblicita', prima del programma, ha fatto il resto.

Il documentario resta completamente fruibile, a chi ne fosse interessato, per contnuti e messaggio.

venerdì 14 febbraio 2014

Vignettismo

Satira che fotografa, purtroppo perfattemente, il panorama politico italiano del momento.
Aspettando futuri sviluppi.





Capitan Pistone

«Di Alzheimer si parla spesso in maniera pietistica, io ho voluto farlo in modo crudo, ma anche tenero». Così parlò la regista Mara Consoli, 50 anni, che ha filmato la fase acuta della malattia che il padre Vittorio ha vissuto fino all’epilogo e ne ha fatto un documentario, «Vittorio, Capitan Pistone... E tutti gli altri», in onda domenica, 16 Febbraio, a mezzanotte su Rai3. La storia di Vittorio è comune a quella di altri 20 milioni di persone. È la stessa che è toccata a Ronald Reagan, Rita Hayworth, Winston Churchill, Charles Bronson, Annie Girardot e tanti altri personaggi celebri e non che a un certo punto della vita si sono trovati di fronte al buio prima intermittente poi sempre più accecante dell’Alzheimer. Una vita che diventa piena di fantasmi, ossessioni e amici immaginari, come il Capitan Pistone del titolo: «Per mio padre era una figura rassicurante, era il capo della polizia e dei carabinieri». Per una figlia deve essere stato particolarmente doloroso girarlo, perché l’ha fatto? «Non certo per la gloria, ma per essere utile ai familiari di tanti malati che si sentono soli. Un Paese civile non può abbandonare chi ha bisogno». Selezionato da diverse rassegne, il documentario parteciperà alla prossima edizione. Chi volesse potrà scaricarlo dal link che sarà presente il lunedì 17, già in tarda mattinata, sempre su questo blog.

mercoledì 12 febbraio 2014

Effetto Vintage

Tutti sanno il perchè il mio blog si chiami così e di cosa si scriva "a bordo" dello stesso. Voglio divagare, un pò come fatto ieri per l'intramezzo musicale, per parlare di tecnologia e di come noi, in generale, diamo con difficoltà del "tu" alla tecnologia stessa. Oggi parleremo di un giochino veramente brutto, una volta disponibile su play store e apple store dal nome di "Flappy Bird". Che succede? Come mai non è più disponibile? Addolorato, sfinito da 50mila dollari di fatturato giornaliero, il vietnamita twittò: «Non ce la faccio più». Così, per sommo volere del suo creatore, si è estinta Flappy Bird, l’app dal successo più strabiliante e inatteso degli ultimi tempi. Lui, Dong Nguyen, 29enne sviluppatore di Hanoi, sabato ha annunciato il ritiro del giochino dagli store di Apple e Google con un cinguettio vagamente melodrammatico: «Ha rovinato la mia vita e ora lo odio». Mistero della Rete: piuttosto insolito sopprimere un’applicazione gratuita che, con la sola pubblicità, aveva prodotto una montagna di quattrini, 50 milioni di download e ticchettii infiniti su smartphone e tablet. Gli studiosi della materia si interrogano anche perché non si era mai vista una simile meteora: dietro al miracolo del mobile gaming c’è una strategia sottile o solo l’umana debolezza di un nerd triturato dalla ribalta? La mania Il successo logora chi ce l’ha (di Andreottiana memoria), a maggior ragione se il boom è strano di per sé: in tempi di tecnologia sopraffina, Flappy Bird è un inno al mininalismo partorito in tre giorni. Videogame basic con scorrimento in 2D che fa tanto Anni 80: c’è un uccello grassoccio che sbatte le ali e attraversa tubi in stile Super Mario.
Flappy Bird per Android
Banale, ma difficile e irritante al punto da creare una malsana dipendenza. E ieri Nguyen, acciuffato in esclusiva mondiale da Forbes, ha ammesso: «L’ho progettato perché facesse rilassare e invece induce assuefazione. Ero stressato e non riuscivo a dormire, ma ora la mia coscienza è sollevata. Flappy Bird è morto, per sempre».Durante l’intervista, il ragazzotto vietnamita ha vietato le foto e disegnato inquietanti teste di scimmia su un foglio: un tipo strano, incapace di reggere al soffocamento di media e utenti. Si è pure difeso dalle accuse di plagio, anche se Nintendo potrebbe preparare l’offensiva vista la sospetta somiglianza a Super Mario. C’è poi chi riconosce un sofisticato hacker, capace di manomettere le recensioni e di mostrare le falle degli app store. Del resto, il gioco scombussola il mercato perché, a differenza dei rivali, non ha bisogno di upgrade a pagamento. E mai sottovalutare la religione del marketing: sul web Nguyen ha tatticamente trovato l’uovo di Colombo e, avendo attirato enormi attenzioni, continuerà a lungo a programmare (i suoi Super Ball Juggling e Shirken Block galoppano già nella Top 20 su iTunes Usa). Intanto, su Ebay finiscono in vendita alcuni dispositivi privilegiati che hanno installato per tempo il mitico Flappy Bird: disponibile un bell’iPod Touch al comodo prezzo di un milione di euro. E chi non vuole spendere un milione di euro, può rivolgersi ad eBay Italia a prezzi davvero vantaggiosi!! Nessuno mai ha sentito parlare di jailbreak, chroot e installazione da .ipk/apk? Ve lo lascio come homework :-)