mercoledì 14 maggio 2014

Infobesity

«INFOBESITY»: obesità da troppa informazione. Obesità mentale, s’intende. Il neologismo viene lanciato da uno studio sulla crescita esponenziale della nostra “dieta quotidiana” di informazioni. Notizie, input, impressioni, opinioni, messaggi personali. È una materia grezza che invade la nostra attenzione, usando le tecnologie digitali, e le cifre sono da capogiro. Negli ultimi sette anni, quelli che forse separano la “prima rivoluzione digitale” dalla nuova Rete 2.0, le email inviate quotidianamente sono esplose da 31 miliardi a 183 miliardi. Erano già tante nel 2007, certo, ma nel 2013 si erano sestuplicate. E qualcuno deve pur leggerle. I video caricati su YouTube erano 11.500 ore al giorno sette anni fa. Ora invece, ogni giorno che passa YouTube accoglie 144.000 ore di filmati aggiuntivi. I tweet nel 2007 erano ancora agli albori: 5.000 “cinguettii” al giorno. Oggi sono oltre 500 milioni al giorno. Il volume di traffico globale che transita su Internet nel 2002 era di 8,6 milioni di gigabyte al giorno, oggi siamo a due miliardi di gigabyte quotidiani. I dati sono di Internet Live Stats, The Radicati Group, You- Tube Trends, Cisco, li ordina insieme un’analisi di Thomson Reuters. L’allarme viene dal fatto che «nell’informazione come nel cibo, l’eccesso può avere conseguenze drammatiche». La diagnosi parla di una «epidemia mondiale di infobesità, una situazione in cui troppa informazione può portare alla paralisi, alla distrazione, all’eccesso di fiducia, alle decisioni sbagliate». C’è un esempio concreto, ai massimi livelli. Non riguarda un singolo essere umano con le sue imperfezioni, ma una delle più potenti aziende tecnologiche della Silicon Valley. Google, nientemeno, che con Flu.Trends aveva lanciato uno strumento analitico per setacciare tutti i social media e raccogliervi immense quantità d’informazioni a fini sanitari. La scommessa di Google: attraverso la potenza di Big Data e la sofisticazione dei software per interpretare quelle notizie, avremmo sconfitto l’influenza. O quantomeno avremmo raggiunto una perfetta capacità previsionale, per indicare in anticipo sviluppi e diffusioni delle prossime epidemie influenzali. Il bilancio? Un disastro. La massima autorità sanitaria Usa, il Centers for Disease Control and Prevention, insieme con una squadra di scienziati diretta da David Lazer, hanno scoperto che il Flu.Trends di Google ha preso delle cantonate micidiali, sovrastimando i casi di influenza in modo sistematico, e ha sbagliato per anni senza correggersi. Nel saggio pubblicato sulla rivista Science, Lazer indica questo come un esempio macroscopico di hybris legata a Big Data. Decisioni sbagliate, come conseguenza dell’incapacità di selezionare, interpretare, un sovraccarico d’informazione. Se di Infobesity si è ammalata perfino Google, figurarsi quanto siamo vulnerabili noi. Tra gli scienziati che se ne occupano, Clay Johnson (autore di The Information Diet) è stato uno dei primi ad analizzare l’informazione alla stregua di un «consumo di alimenti»: se ne possono ingerire in eccesso, e stare molto male. Esiste secondo Johnson un «preciso e osservabile modo di funzionamento neuronale» che coincide con il sovra-consumo d’informazione. Sotto accusa, insieme con «l’invasività dell’informazione », c’è la nuova norma sociale «che rende accettabili le continue interruzioni della nostra attenzione». Mark Pearrow, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, ha creato un sito che si chiama Infobesity.com. Il suo scopo è «trovare la giusta dieta per l’informazione». Per questo vuole capire anche «quali antichi meccanismi sono in funzione nelle nostre menti e nei nostri corpi, che ci rendono suscettibili di sviluppare una dipendenza». Il paragone alimentare calza alla perfezione. Gli esseri umani hanno abitato questo pianeta per decine di migliaia di anni in condizioni di penuria di cibo, esposti al rischio di carestie; quando il cibo è diventato abbondante, non eravamo geneticamente programmati per resistere alla tentazione. Qualcosa di simile ci sta accadendo con l’informazione nell’èra della sua abbondanza digitale. Infobesity è un neologismo che ha avuto illustri predecessori. Negli anni Settanta Alvin Toffler cominciò a parlare di «information overload», sovraccarico. In seguito arrivarono termini come «information glut» (intasamento) e «data smog». Alla nascita della posta elettronica, nel lontano 1997 un’indagine fra i manager delle maggiori aziende Usa (Fortune 1000) dimostrò che il 50% di loro veniva «distratto sei volte all’ora dall’arrivo di email». Un problema minimo, trascurabile, rispetto a quel che accade oggi con le riunioni aziendali dove tutti hanno lo sgaurdo incollato sul display dello smartphone. Nicholas Carr, che ha diretto la Harvard Business Review ed è autore di The Shallows — What The Internet Is Doing To Our Brains, spiega che le email e altri messaggi digitali sfruttano un nostro istinto primordiale che spinge alla ricerca di nuove informazioni. Ma perfino Eric Schmidt, chief executive di Google, ammette che il bombardamento incessante di nuovi dati può avere un impatto negativo sul nostro pensiero, ostacolare le riflessioni più profonde, la comprensione, l’apprendimento, la memorizzazione. Insieme con l’allarme, cominciano a elaborarsi delle strategie di resistenza. L’indagine Thomson Reuters, rivolta alla grandi aziende americane, indica alcune autodifese. Una di queste chiama in causa ancora una volta la tecnologia: si elaborano software sempre più avanzati per «scremare, filtrare e selezionare » la massa bruta e gigantesca di notizie personali o commerciali depositate dagli utenti nei social media. Chiediamo a un software di «distinguere» ciò che conta dall’effimero. Le intelligent alerts sono il passo successivo: ci facciamo stimolare solo quando appaiono nella nebulosa delle informazioni grezze quei temi che noi abbiamo pre-segnalato perché di nostro interesse. Un terzo filone di ricerca riguarda le “ricerche intuitive”, basate su software che imitino il pensiero e il linguaggio umano. Apple con Siri (il cosiddetto “assistente personale” che ci parla dall’iPhone) è uno degli esempi di questa ricerca di un aiuto tecnologico che possa guidarci dentro un universo di conoscenze troppo vasto per noi. Infine c’è una tendenza che non ha nulla a che vedere con le tecnologie: è l’emergere di un potente “agnosticismo dei dati”. L’indagine Thomson Reuters lo indica come un trend in crescita tra quei dirigenti che vogliono «combattere l’infobesità», riprendendosi il controllo delle fonti, della qualità dell’informazione, dell’attendibilità. Per sostenere questa rivolta contro la bulimìa dei dati, sono di aiuto anche i corsi di mindfulness (letteralmente: la qualità di una mente completa, di un’attenzione piena), tecniche di meditazione e concentrazione che mutuano dallo yoga e da analoghe discipline buddiste. Sally Boyle, che dirige le risorse umane per Goldman Sachs, è certa che «fra qualche anno questi esercizi di meditazione ci sembreranno normali, essenziali e diffusi quanto le sedute in palestra ». Non ci resta che riflettere su questi dati ASSOLUTAMENTE ALLARMANTI.

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