lunedì 1 luglio 2013

El Pepe: l’Uruguay ed il suo leader povero

Incollo qui il risultato di alcune ricerche fatte (Wikipedia, giornali online, e-zine e tutto il materiale digitale possibile) sul presidente dell'Uruguay, El Pepe. Copre molto gli onori della ribalta in questo momento economico davvero delicato, capiamo assieme perchè.


"Il passato? È come uno zaino. Te lo porti sulle spalle ovunque vai. Ma, mentre cammini, guardi avanti…”. Questo ama ripetere Jose Mujica Cordano, meglio noto come “el Pepe”, da tre anni presidente della Republica Oriental del Uruguay. E non v’è dubbio che in quella mochila Mujica abbia, nei suoi 78 anni di vita, accumulato davvero molte cose. Ricordi pesanti come macigni e cupi come la galera nella quale ha trascorso 14 anni della sua vita, fardelli che, sebbene in grado di piegare ogni schiena, non gli hanno mai impedito di camminare diritto. Guerrigliero, volgare, semplice, trasandato, geniale, sporco, coerente, pericoloso, affidabile, ipocrita, saggio. E proprio così - “un uomo saggio” - lo ha senza riserve definito, solo qualche settimana fa, al termine d’un incontro in Vaticano,
papa Francesco I, nonostante la legge di depenalizzazione dell’aborto da poco approvata dal governo che Mujica presiede. Su un solo aggettivo tutti sembrano però concordare: “povero”.

La fattoria e il Maggiolino
José Mujica Cordano è infatti povero nel più materiale significato del termine.  Perché possiede poche cose. Una piccola chacra (fattoria) nel Rincón del Cerro, alla periferia ovest di Montevideo, dove da anni coltiva crisantemi che vende al mercato. Una vecchia casa campestre con i muri anneriti dall’umidità dove, disdegnando la sontuosa residenza presidenziale di Suarez y Reyes, continua a vivere con la moglie Lucía Topolansky e con l’ormai leggendaria Manuela, la cagnetta a tre zampe che lo segue ovunque. Altri possedimenti: un maggiolino Volkswagen del 1994 ed un vecchio trattore. 
Totale imponibile: a occhio e croce, poco più di 100.000 euro. In qualità di presidente della nazione, “el Pepe” gode, inoltre, d’un appannaggio mensile pari a circa 15.000 euro, il 90 per cento dei quali vengono da lui devoluti a favore d’un programma di edilizia popolare. Ed è proprio quest’ultimo - il “presidente povero” d’un piccolo- grande paese - il Mujica che, con ostentato giubilo, il mondo ha di recente scoperto. Lo ha fatto grazie soprattutto a un discorso che è rapidamente diventato, non solo una sorta di manifesto per i verdi
sostenitori dello “sviluppo sostenibile”, ma anche una sorta di neo-francescano inno alla povertà. Povero, ha detto Mujica a Rio - citando Epicuro e Seneca - non è chi possiede poco, ma chi sente la necessità di molto più di quanto occorra per raggiungere quella cosa semplice e dimenticata che si chiama “felicità”. È per essere felici - non per produrre e consumare cose che non ci servono - che siamo al mondo, ha detto “el Pepe”. E lo ha fatto con la stessa “rivoluzionaria” innocenza del bambino della favola di Andersen.

Ma è davvero tutto qui il “vero” José Mujica Cordano? La risposta la si può trovare, in parte, nella mochila che “el Pepe” si porta addosso e, in parte, nel suo presente presidenziale. Perché all’interno di quello zaino non si intravede altro che un inestricabile coacervo di contraddizioni, una realtà arruffata come la capigliatura del proprietario. C’è, in quella mochila, il Mujica guerrillero, la realtà d’una esperienza di partecipazione alla lotta armata degli anni ’60 e ’70, alla quale el Pepe è arrivato, non attraverso classici sentieri di sinistra, ma partendo dalla realtà blanca , conservatrice, del Partido Nacional. O meglio: del partito della campagna, contrapposto al progressivismo urbano, massone, del Partido Colorado. Mujica si riconosce nella parte più popolare, contadina, dei nazionalisti: quella del presidente Bernardo Berro (l’uomo che abolì la schiavitù) e, soprattutto, del caudillo gaucho Timoteo Aparicio, protagonista, nel 1870, de la revolución de las lanzas, forse l’ultima guerra combattuta e (almeno temporaneamente) vinta usando prevalentemente armi non da fuoco.
Il Mujica Tupamaro nasce qui, illuminato, in lande molto lontane dal marxismo, dalla novità della rivoluzione cubana, ed alimentato da un’infatua - zione militarista che andava ben oltre i dettami del nascente “foquismo” guevariano. E qui nascono, di conseguenza, anche il Mujica combattente e il Mujica “prigioniero di guerra”, arrestato, fuggito, arrestato di nuovo nel 1972, un anno prima del golpe militare, ed in carcere rimasto - per almeno tre anni in condizioni disumane - fino al 1985, anno del ritorno della democrazia. Molti suoi avversari gli rinfacciano d’avere sempre evitato - coprendosi dietro la cortina del generico ripudio della lotta armata - un’analisi vera, approfondita di quegli anni. E lo accusano anche di continuare ad alimentare il mito romantico
d’una guerriglia contrapposta alla dittatura. Al di là di questa disputa storico-politica, un fatto è tuttavia certo. Di quei giorni di violenza e di morte racchiusi nello zaino, Mujica sembra oggi non sentire il peso. O, più esattamente: di quei giorni che, per lui, significarono sofferenze inflitte (non molte) e sofferenze subite (moltissime), sembra non portare alcuna cicatrice. Perché è a tutti gli effetti un uomo senza rancori, senza desideri di vendetta e, persino senza ansie di giustizia.
Il prigioniero ed il combattente
Che altro si trova nella mochila di el Pepe? Una quantità di cose: intuizioni geniali, improvvisazioni, idee lasciate a metà, molte delle quali immancabilmente destinate a far rizzare i capelli in testa ai suoi più entusiasti ammiratori “verdi”. José
Mujica Cordano, presidente della Republica Oriental del Uruguay è infatti davvero - come testimonia il suo discorso di Rio - un poeta del “ritorno alla Madre Terra”. Mujica è un inflessibile, fanatico quasi, assertore della necessità di coltivazioni transgeniche. E la terra, per lui, presidente povero, esiste (e va amata) solo in quanto produttrice di cibo o, comunque, di ricchezza. Una convinzione, questa, che lo ha di recente portato ad ipotizzare la lottizzazione delle spiagge di Cabo Polonio perché (questo disse prima che lo scandalo lo forzasse alla retromarcia) così com’è oggi serve soltanto a unos lagartos (ad alcune lucertole, con ovvio riferimento ai turisti che ivi s’abbronzano). Ed oggi? Cosa ci offre oggi? Rispondere non è facile. L’Uruguay che desidera è “un paese agro-intelligente” capace d’usare le sue risorse naturali per raggiungere la modernità. Ed il socialismo che lui auspica è, in aperto contrasto con Hugo Chávez (un presidente del quale, pure, Mujica ha sempre parlato con ammirazione), un socialismo lontano, ancora bisognoso, per cominciare a realizzarsi, di molte fasi intermedie (“prima di distribuire la ricchezza bisogna crearla” ha detto el Pepe nel suo discorso inaugurale) e sicuramente non il semplice prodotto di “un ampiamento del ruolo e delle dimensioni dello Stato”. Un sogno, insomma, al quale fa da contrappeso la realtà di una politica economica che, sotto la molto ponderata e continuista guida del “comasco” Danilo Astori, non ha subito, in Uruguay, variazioni di sorta rispetto agli anni di Tabaré Vasquez. Chi può dirlo? Forse hanno ragione quanti credono che di José Mujica – già oggi, a due anni dalla fine del suo mandato, più popolare fuori che dentro il paese - non sia destinata a restare, a conti fatti, che quella quasi folcloristica immagine di povertà. Il ricordo d’uno stile di vita, una piccola nota a piè di pagina nei trattati di Storia del secolo XXII. Null’altro che una fotografia sbiadita. Ma, in ogni caso, una bella fotografia. Anzi: una fotografia a suo modo unica e capace, già oggi, d’ispirare un senso acuto di nostalgia. Riuscirà il mondo, in futuro, a trovare un altro Pepe?

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