martedì 9 luglio 2013

Quando si muore, si muore soli

Oggi do spazio ad un lettera dell'ex deputato del Pdl, Melania Rizzoli, medico, che spiega a tinte forti e crude, la tecnica del suicidio assistito dei malati terminali. Invita, noi tutti, a riflettere.

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Il suicidio assistito è un’auto-induzione della morte con assistenza medica. Una pratica legale in diversi Paesi europei, soprattutto in alcune cliniche svizzere dove circa dieci italiani al mese ricorrono con successo a questo metodo letale. I pazienti vengono valutati con seria professionalità in base alle loro condizioni cliniche e psicologiche di salute e viene ammessa alla procedura solo una parte di loro, in base a criteri specifici,
soprattutto persone allo stadio terminale di malattia o soggetti  depressi irreversibili con spiccato e manifesto mal di vivere. Dimenticate però quello che avete visto nei film, l’arrivo in una linda clinica del potenziale suicida ricoverato in una camera con vista sul laghetto dorato in un’atmosfera di musica soffusa e di sorrisi, adagiato su un letto inamidato, confortato e salutato dai parenti mentre i sanitari gli infilano una flebo medicata che lo farà addormentare e poi morire dolcemente nel sonno grazie al cocktail letale di veleno farmacologico infuso a goccia lenta, per dar loro il tempo delle ultime parole e degli ultimi desideri. Non funziona così. La selezione dei candidati alla morte è durissima e inflessibile; ai prescelti viene spiegata in dettaglio, con competenza e professionalità, la procedura, il suo esatto svolgimento e l’esito finale, compresi effetti collaterali, imprevisti e procedure post mortem.
Sono centri in cui si aiuta a morire, non a vivere. Spesso per i pazienti quel colloquio è una dolorosa sorpresa e molti di loro rinunciano, tornando indietro sulle loro decisioni, ma alcuni ci ripensano e ritornano più volte
finché non trovano il coraggio. Perché il coraggio? Perché lo devono fare da soli. Per questo si chiama suicidio. A ognuno di loro viene infatti spiegato che il medico specialista prepara il mix letale di barbiturici nella dose calcolata a provocare la loro morte, in base al loro peso e alle loro condizioni cliniche, ma
il cocktail di farmaci mortali viene preparato in un bicchiere diluito in acqua, che viene posto sul comodino accanto al letto e che il paziente, cosciente e nel pieno delle sue facoltà mentali, quando riterrà di essere psicologicamente pronto, dovrà bere da solo, di sua spontanea volontà fino all’ultima goccia e senza l’aiuto di una mano amica, per poi attendere la perdita dei sensi, l’oblio della coscienza e il suo conseguente arresto cardiaco. L’assistenza sanitaria nel corso del suicidio assistito del paziente viene assicurata da una idratazione endovenosa senza farmaci specifici e da un monitoraggio continuo del sistema cardiovascolare, seguito e controllato fino al bip finale che conferma l’ultima contrazione cardiaca con l’arresto cardiocircolatorio e la morte. In tutti i Paesi dove si pratica il suicidio assistito non è legalmente ammesso l’intervento materiale e attivo del medico alla somministrazione orale o endovenosa dei farmaci mortali, altrimenti si tratterebbe di quella che viene definita “eutanasia attiva”. Bisogna anche sottolineare, però, che non tutti i centri clinici seguono rigidamente le regole secondo la legge, tanto che in alcuni casi il farmaco mortale viene diluito in una flebo che viene montata in vena chiusa e che il paziente dovrà azionare da solo con le sue mani, per morire prima e più rapidamente. Negli ultimi mesi sono stati resi noti alle cronache diversi suicidi assistiti di personaggi famosi che in silenzio e senza clamore si sono recati in Svizzera più volte per porre fine alle loro sofferenze, riuscendo, per i motivi su descritti, a esaudire il loro desiderio solo al secondo o terzo tentativo, e pur non essendo afflitti da malattie terminali hanno denunciato con l’ultimo gesto, l’irrefrenabile volontà di morire in modo assistito, senza azioni di autolesionismo violento e traumatico, ben consapevoli che nel loro Paese non avrebbero potuto realizzare legalmente questo proposito. Quando il paziente viene ammesso al protocollo “di cura” deve prima firmare le autorizzazioni per la sua morte programmata e viene girato un breve video in cui l’aspirante suicida dichiara di essere in piene facoltà mentali e di accettare volontariamente il trattamento. È doveroso aggiungere che tra i pazienti affetti da malattie inguaribili solo un numero irrilevante di loro desidera con forza porre fine alle proprie sofferenze, perché il desiderio di vita quando si è malati prevarica sulla morte pur se imminente. Molti autorevoli personaggi italiani del mondo della scienza, della cultura, della politica e del giornalismo si sono espressi più volte pubblicamente su questi temi, con opinioni contrastanti, ma è bene ricordare che una cosa è discuterne da sani, seduti in un salotto televisivo, un’altra è affrontare concretamente l’argomento quando si è malati, distesi su un letto attaccati alle flebo e si avverte vicino il profumo della morte. Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile, rispettando la libera autodeterminazione della coscienza è il compito e il dovere di noi medici, che siamo addestrati e abilitati a custodire e proteggere la vita e non a sopprimerla a richiesta, anche se sappiamo bene che ogni caso è diverso e va valutato in scienza e coscienza. Posso solo aggiungere che ho lavorato per dieci anni in un dipartimento oncologico seguendo molti malati terminali e alleviando con ogni mezzo le loro sofferenze sempre fino alla fine. Non è mai successo che qualcuno di loro mi pregasse di aiutarlo a morire. Mai. Nemmeno quando erano divorati dal cancro e vicini alla fine. Anzi. In quei momenti, la cosa che mi colpiva di più era che da quei corpi devastati, piagati e piegati dalla malattia, si accendeva uno sguardo, usciva una flebile voce che manifestava un solo terribile desiderio: quello di vivere.
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