mercoledì 29 settembre 2010

Intervista a Miriam Lamizana

«Quando le mutilazioni ai genitali si annunciavano via radio»

La presidente del Comitato interafricano contro l’escissione dei genitali
femminili: «Una risoluzione delle Nazioni Unite può aiutare le donne»

Miriam Lamizana ricorda ancora quando in Ciad si usava annunciare via radio la mutilazione sessuale delle proprie figlie. «Era una grande festa. Fuori c’era gente che ballava e cantava, dentro si sentivano gli strilli delle ragazzine. Se accadesse ora, se qualcuno provasse ora a dare un simile annuncio per radio, beh credo proprio che arriverebbe la polizia». Miriam Lamizana, già ministro degli Affari sociali del Burkina Faso, è presidente del Comitato interafricano contro le mutilazioni genitali femminili, in questi giorni aRomadopo essere stata aNewYork per sostenere l’approvazione di una risoluzione Onu contro questa pratica che ha sfregiato 150 milioni di donne nel mondo. In Italia ha trovato una sponda nell’associazione «Non c’è pace senza giustizia», che con Emma Bonino e il ministero degli Esteri sostiene la campagna perché si arrivi ad una risoluzione delle Nazioni Unite. «Sarebbe il coronamento di tutto il lavoro fatto in questi decenni e lo strumento per andare avanti», dice Miriam. Il «lavoro» di cui parla è quello che oggi le consente di ridere, quando racconta degli annunci alla radio del Ciad. «Se lo immagina lei, un annuncio per dire: venite tutti alla mutilazione di mia figlia? ». Perché non importa che sia parziale, non importa che il taglio preveda o meno l’amputazione completa dei genitali esterni. Non importa se sia infibulazione o escissione, o come la si voglia chiamare. Quello che è in gioco è il diritto delle donne a veder rispettata l’integrità del proprio corpo, undirittoumano, questo dice la bozza di risoluzione.
Come è nata questa campagna?

«All’inizio è stata soprattutto l’iniziativa di singoli attivisti, che sono riusciti nel tempo ad allargare la loro presa fino a coinvolgere i governi e istituzioni internazionali. Se proprio vogliamo indicare una data, è il decennio che parte dal 1975, quando si sono moltiplicate le iniziative contro la violenza sulle donne. Nel 1984è nato il Comitato interafricano, che ha deciso di creare una propria struttura in ognuno dei 28Paesi in cui si praticava l’escissione, in gran parte paesi dell’Africa occidentale e specialmente sub-sahariana, oltre al Corno d’Africa».
Una risoluzione Onu può cambiare davvero il ricorso ad una pratica che spesso è già vietata?
«Bisogna capire che noi lavoriamo per tappe. Abbiamo cominciato a livello nazionale, per vedere quali fossero gli ostacoli. Abbiamo fatto un’azione di sensibilizzazione, cominciando a parlare dei problemi che l’escissione provoca per la salute delladonna e del bambino. Poi abbiamo cominciato a ragionare sull’educazione e sull’autonomia economica delle donne: sono tutti aspetti dello stesso problema. Ci sono resistenze socio-culturali che non si possono rimuovere dall’oggi al domani.Macon l’azione dal basso abbiamo spinto il governo a prendere coscienza del problema e a riconoscere le associazioni che vi si dedicavano. Poi siamo passati su una scala regionale. Con la ratifica nel2005 del protocollo di Maputo, che vieta tra l’altro le mutilazioni genitali femminili siamo riuscite a fare un altro passo: il protocollo ha spinto molti Paesi che non l’avevano a dotarsi di una legge specifica a questo proprosito. Oggi gli Stati che vietano l’escissione sono diventati 15 su 28, prima erano otto o nove. Per questo credo che la risoluzione Onu avrebbe un grande valore politico, perché spingerebbe i governi ad assumerepolitichesempre più chiare e decise sulle mutilazioni genitali. E c’è poi un altro punto: servirebbe ad innescare la solidarietà di quei Paesi dove questa pratica non esiste, che potrebbero però dare un aiuto».
Che tipo di risposta avete trovato nei Paesi africani? Che cosa è cambiato?
«Il cambiamento si vede soprattutto nelle nuove generazioni. Nelmio Paese, per esempio, la percentuale dimutilazioni inflitte alle bambine è scesa dal 75 al 38%, con un processo cominciato dagli anni ‘70. In tutto questo tempo è caduto un tabù, che in Africa è molto forte quando si fa riferimento al sesso, e si è cominciato a parlare dell’escissione come di un problema, quanto meno di salute se non di diritti umani. C’è stata una presa di coscienza. In Mauritania, per esempio, i leader religiosi hannoemessouna fatwa contro le mutilazioni genitali. Ci sono programmi statali di informazione, che si preoccupano anche di trovare un lavoro alternativo alle donne che fino a questo momento hanno praticato l’escissione. Bisogna procedere per gradi,mail segno del cambiamento c’è».
Come riuscite a convincere le comunità locali, dove si esercita materialmente la pressione sulle donne, a cambiare atteggiamento?
«Il mezzo principale è l’informazione. Cominciamo con le ostetriche. Una volta durante il parto si preoccupavano di riaprire le donne escisse, per far nascere il bambino, ma non dicevano nulla. Oggi invece spiegano alla nuova madre e alla sua famiglia perché devono procedere in questo modo, spiegano il dannoprodotto dall’escissione e i rischi che comporta. Vengonoaffrontati anche problemi sessuali. Spesso capita infatti che la mutilazione dei genitali esterni, soprattutto quando è praticata in bambine molto piccole, cicatrizzi quasi completamente rendendo impossibile il rapporto sessuale. Facciamo vedere foto, video o manichini. E mostrare che cosa sia davvero un’escissione è molto più efficace di tante parole».
L’escissione è stata spesso considerata una cerimonia di iniziazione. Come si supera questo scoglio?
«Questo è sempre meno vero. L’introduzioni di leggi che la vietano, ha spinto a ricorrere a questa pratica in clandestinità, anticipando molto i tempi. Quando arriva il momento della cerimonia di iniziazione all’età adultà, le ragazze hanno spesso già subito la mutilazione. Le due cose quindi si sono separate. Noi cerchiamo di conservare la festa e cancellare il danno».
In Africa c’è una crescente presenza politica della donne. È questo che ha fatto la differenza?
«Potrei dire che è vero il contrario. C’è stata la generazione nata negli anni 50 che è stata molto attiva a livello di base, anche sul tema delle mutilazioni genitali, eda questa generazione sono emerse figure politiche. Ma è un processo che è cominciato dal basso, non viceversa».

Nessun commento:

Posta un commento